Mercoledì 07 febbraio ci siamo recati in gruppo presso uno dei Cinema storici del Centro di Torino per vedere l’ultima fatica di Steven Spielberg, con Tom Hanks come protagonista: The Post. Il film è stato annunciato nelle ultime settimane come uno dei più importanti dell’anno, è candidato all’oscar e a vari premi di alto livello, in particolare per l’interpretazione magistrale di Meryl Strip.
The Post narra un episodio molto tumultuoso della storia della Stampa negli Stati Unti. Si tratta degli avvenimenti seguiti alla decisione di alcuni giornali (in modo particolare Il New York Times, poi il Washington Post) di pubblicare un rapporto, classificato “Top secret”, del dipartimento della Difesa statunitense, detto Pentagon Papers.
I “Pentagon Papers” sono un rapporto, di oltre 7000 pagine, commissionato dal Dipartimento della Difesa degli USA: uno studio dettagliato sulle dinamiche, le strategie e le decisioni messe in atto nei rapporti tra Gli Stati Uniti con il Vietnam dal 1945 al 1967. Dopo qualche anno, nel 1971, Daniel Ellsberg, un funzionario della Difesa, decide di copiarli e di consegnarli alla stampa.
Fu il New York Times a pubblicarne alcuni estratti in prima pagina, il 13 giugno 1971. In seguito, e nonostante una ingiunzione giudiziaria che ne vietava la diffusione, prima Il Washinton Post, poi altri giornali nazionali e locali, decisero di pubblicarne altri estratti in nome della libertà della Stampa.
La storia è narrata dal punto di vista della direzione del Washington Post. Da una parte l’editore, Katharine Graham (Meryl Streep), figlia della famiglia Graham, storicamente proprietaria del Giornale locale di Washington, ma prima donna al posto di comando dell’azienda di famiglia e suo direttore. Dall’Altro, abbiamo Ben Bradlee (Tom Hanks), direttore editoriale.
Da una parte c’è il futuro dell’azienda editoriale, in difficoltà e che per ridurre il deficit finanziario decide di iniettare capitali freschi quotandosi in borsa. Dell’altra c’è un quotidiano, quello della capitale del paese, che non riesce ad avere una dimensione pienamente nazionale. La più giovane testata della capitale economica, Il New York Times, se la cava molto meglio: giornalisti di talento, inchieste di qualità e “scoop”.
Infatti è il New York Times che fa scoppiare lo scandalo, i redattori del Post leggono gli estratti dei Pentagon papers sulla prima pagina del NYT, come tutti. Ma il dipartimento della Difesa reagisce energicamente e porta il giornale davanti ai tribunali. L’accusa è di minaccia alla sicurezza dello Stato. I giudici bloccano la diffusione di altro materiale con una ingiunzione. Ma nei giorni successivi, Daniel Ellsberg decide di fornire i “papers” a tutta la stampa. Il Washington Post in primis.
La redazione e la proprietà del Post si trova di fronte ad un dilemma forte: pubblicare e rilanciare le vendite e il prestigio del giornale ma rischiare la chiusura e anche la prigione, o non pubblicare, passando accanto a un’occasione per fare la Storia e rimanendo un piccolo giornalino locale che cerca di gonfiare le sue vendite con il “gossip” e la cronaca nera. Ovviamente scelgono la prima, e non svelo niente del film dicendolo, perché questo fa parte della Storia.
Il film rientra in una categoria molto apprezzata negli States, quelli che raccontano il mondo dei mass-media dall’interno: dal lontano Citizen Kane (1941), fino a quelli di oggi. Un filone che tira molto e che porta in genere un sacco di premi. E Spielberg è conosciuto per avere fiuto in questo tipo di cose. Il regista lo definisce un “inno alla libertà di Stampa”. Ed in qualche modo lo è. Non c’è dubbio.
La decisione di pubblicare era sicuramente una decisione grave, avventurosa, forse anche pericolosa, come racconta il film. E a suo tempo ha svelato le bugie del governo sulla guerra e ha contrastato la pretesa del governo Nixon di bloccare ogni critica alle politiche disastrose dello Stato con la scusa della sicurezza nazionale.
Ma dico “forse” pericolosa, perché non stiamo parlando di piccoli giornali di provincia, di giornalisti isolati e indifesi. Il film racconta la storia di una donna che riceveva a casa sua Segretari di Stato, Presidenti della Repubblica, Ministri, Consiglieri e Senatori… Una donna che fa parte della Crema della crema del paese. E di un direttore editoriale che quando non aveva nulla da fare si sedeva a fumare il sigaro insieme a … John F. Kennedy. Infatti, tra i vari dilemmi che deve affrontare, la signora Graham si chiede se svelare la verità non possa arrecare offesa al suo amico intimo: il segretario di Stato alla difesa stesso.
Sono due le cose che spingono sia Daniel Ellsberg a diffondere i “papers” che i giornali a pubblicarli: i governi hanno sistematicamente mentito sulle loro politiche in Vietnam, ma soprattutto non c’era mai stata nessuna chance di vincere quella guerra. Questo detto da quelli stessi che l’hanno cominciata. Quindi migliaia di giovani Statunitensi sono stati mandati a morire per quale motivo? Per ottenere cosa?
Non ho potuto non notare, però, che non è stata l’ingiustizia commessa nei confronti del popolo aggredito a disturbare la nomenclatura dei media americani, non è il fatto che il regime sostenuto fosse corrotto, violento, criminale e totalitario, né che i metodi usati nei confronti del popolo vietnamita fossero da corte di Norimberga… E’ solo l’aver mentito sulle chance di vincerla, quella sporca guerra, che turbava la quiete della nomenclatura finanziaria e mediatica del paese a stelle e strisce. Non importava l’imperialismo, non importava la politica al servizio del capitale, non importava che si andasse a combattere e massacrare gente innocente per interessi economici, per arricchire quello che allora si chiamava il complesso militare-industriale (e ancora oggi non si è trovato nome migliore per chiamare quell’intreccio di interessi tra finanza, industria bellica, politica e militarismo). Niente di questo turbava il sonno della Signora Graham, dei signori Bradlee e Elsberg e di tutti gli altri tipi della stampa e della politica del paese leader del mondo libero e democratico.
E infatti i grandi titoli della stampa statunitense (e anche i nostri – ricordiamoci di La Repubblica e del Niger Gate) non si opposero in alcun modo alle avventure militari dei governi successivi a Nixon. Anzi, furono lo strumento principale della giustificazione di interventi bellici costruiti su basi menzognere quanto quello del Vietnam, e spesso anche di più.
Quindi i “Pentagon papers” non sono stati tutta questa grande rivoluzione. Ma “The Post” rimane un grande film (commerciale). Ritmo sostenuto, suspense, fotografia stupenda, regia ottima, cast milionario e interpretazioni di altissimo livello: 118 minuti di intrattenimento di qualità e una lezione di Storia da prendere con le pinze, come sempre.