Un italiano su tre ha provato la cannabis almeno una volta nel corso della propria vita. Un dato presentato nella Relazione annuale sulle droghe al Parlamento e che restituisce alla sostanza psicoattiva il primato per diffusione sia tra la popolazione adulta sia tra i giovanissimi. Sua la quota più ampia del mercato nazionale delle sostanze illecite, pressoché totalmente suoi i quantitativi di sostanza sequestrati dalle forze dell’ordine (pari al 90% del totale).
Ma sulla cannabis l’atteggiamento degli italiani e lo sguardo della sua politica appaiono diversi rispetto ad altre droghe, specialmente condividendo un certo apprezzamento per il suo uso nella terapia del dolore per pazienti di malattie oncologiche o degenerative quali la sla. È dal 2007 che l’uso in terapia del cannabinoide è ammesso in Italia e dal 2013 il riconoscimento dell’efficacia è stato esteso anche alla pianta di cannabis in forma vegetale e ai suoi estratti e preparati. Pur posizionandosi come fanalino di coda di quanto da anni è già norma nel nord Europa, il Paese potrebbe infatti “a breve” (le virgolette sono d’obbligo con il cambio di legislatura in corso) avere una legge organica sull’uso terapeutico della cannabis dopo l’approvazione di un ddl in materia votato dalla Camera lo scorso ottobre ma intanto quasi tutti gli enti territoriali si sono mossi in maniera autonoma e ben più avanzata, sulla base della propria autonomia dal legislatore in materia sanitaria. È soprattutto la Regione Toscana che può allora vantare l’attivazione di una collaborazione con lo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare per la produzione di cannabis terapeutica, unico centro autorizzato. Il cosiddetto “oro verde” è prodotto quindi legalmente anche in Italia, con un crescente aumento tanto dei numeri delle piante quanto dei pazienti che ne fanno ricorso, riducendo l’importazione dall’estero.
A questa più mirata partecipazione istituzionale al controllo di gestione di sostanze stupefacenti, seppur a fini terapeutici e non sull’intero territorio nazionale, fa fronte però una generale sensazione di abbandono della questione delle dipendenze dai dibattiti e dagli obiettivi delle diverse forze politiche, lasciandola ai soli addetti ai lavori dei servizi sociali. Sempre la citata Relazione sulle droghe al Parlamento ha messo in luce che mai quanto oggi le droghe sono diffuse e, nonostante cannabis e cocaina restino le sostanze più diffuse, spaventa un ritorno dell’eroina sul mercato a prezzi stracciati e soprattutto la diffusione tra i più giovani di sostanze sintetiche che si evolvono con una rapidità tale che il sistema di contrasto non riesce a farvi fronte. Accade quindi, citando un recente articolo di Vita, che “oltre il 25% dei ragazzi delle scuole medie superiori dichiara di avere assunto almeno una volta una sostanza illegale e di questi circa il 30% non sa neanche che tipo di droga ha assunto”. Una superficialità correlata alla giovane età ma anche a un più generale disinvestimento su piani di prevenzione e sui processi educativi correlati al consumo di droga che si richiamano a una normativa ormai datata (il DPR 309/90).
È in questo spazio lasciato ormai pressoché vuoto che si trovano molti giovani in carne ossa, veri come Pamela Mastropietro, che purtroppo solo la drammatica cronaca porta talvolta alla pubblica conoscenza. Così come sconosciute sono le storie di chi queste droghe le trasporta o le vende su cui ugualmente da anni vi è uno spesso velo di silenzio. Se è noto che la macrogestione e gli affari restano saldamente nelle mani delle molte mafie che lucrano sui traffici, poco si sa sul fatto che l’Africa occidentale è da un decennio la cinghia di trasmissione del traffico di cocaina prodotta in Colombia, Perù e Bolivia, per circa il 30% della cocaina consumata in Europa: una rotta che vale decine di miliardi di dollari. L’Africa si affaccia inoltre come produttore di cannabis, circa ¼ della produzione mondiale concentrata in Nigeria, Kenya, Sudafrica, Malawi e Tanzania (secondo il rapporto della Commissione dell’Africa Occidentale sulle droghe del 2013), e non manca di risultare un centro di distribuzione di droghe sintetiche, metanfetamine poi vendute principalmente sui mercati europei.
Negli ultimi anni la profonda penetrazione della corruzione, l’alta povertà e disoccupazione, la forte vulnerabilità delle istituzioni hanno aumentato il giro d’affari della droga in Africa a tutto vantaggio delle mafie dei narcotrafficanti che gestiscono tutta la produzione, la distribuzione e la vendita con costi geopolitici devastanti. Proprio nel continente nero cresce il nesso tra commercio di droga e radicalismo di gruppi armati che si autofinanziano imponendo il pagamento di imposte ai trafficanti sulle terre che occupano: un sodalizio che consente ai narcos di trasportare la droga verso i mercati europei e ai gruppi armati di acquistare nuovi strumenti di morte per imporre il proprio potere e pagare la fedeltà dei miliziani. Dunque una collaborazione che converge i bisogni e fa ottenere a entrambe le parti il massimo del beneficio. Qualcuno in queste manovre ci perde ma resta solo un numero all’obitorio o una mano sconosciuta che vende una dose: i prodotti finali di un traffico dal quale dipendono.
Articolo di Miriam Rossi