I costi della guerra sono prima di tutto umani. Ogni anno nei 36 scenari di guerra contemporanei documentati dall’Atlante della Guerra e dei Conflitti si cancellano le vite migliaia di persone e con esse il futuro di centinaia di regioni. Si calcola con una stima ottimistica che circa 167 mila persone hanno perso la vita nei conflitti armati di tutto il mondo nel 2015 e che più di 65 milioni di persone per gli stessi motivi sono state costretta a migrare nel 2016. Un numero di rifugiati senza precedenti, superiore agli abitanti dell’Italia e grande quanto quelli del Regno Unito, in fuga da comunità e spesso interi Paesi devastati nelle infrastrutture e nel tessuto economico. E se ai cinici verrà in mente che vendere armamenti genera indotto e posti di lavoro occorre spiegare loro che la ricaduta positiva del mercato delle guerra sull’economia mondiale, in realtà non esiste. Secondo i dati più recenti in mano all’Institute for Economics and Peace i conflitti e le violenze ci sarebbero costati 13,6 trilioni di dollari nel 2015, mentre per il rapporto “World Humanitarian Data and Trends” dell’Office for the Coordination of Umanitarian Affairs dell’Onu (Ocha), il mondo nel solo 2016 ha pagato alla guerra un tributo ancora più alto: 14,3 trilioni di dollari, pari al 12,6% del Pil globale. Un record negativo assoluto.
In particolare per l’Ocha se nel 2016 le spese militari sono costate 5,6 trilioni di dollari e la sicurezza interna ha richiesto circa 4,9 trilioni di dollari, pesando per oltre due terzi sui costi di guerre e conflitti, tutte le altre perdite economiche sono state causate direttamente dai conflitti per 1 trilione di dollari e dal crimine organizzato che spesso approfitta degli scenari bellici per 2,6 trilioni di dollari. Per Rob Smith, del World Economic Forum, non c’è da sorprendersi se il costo della guerra è aumentato negli anni visto che è in relazione al numero di conflitti: “Globalmente, nel 2006 c’erano 278 conflitti politici attivi. Dieci anni dopo, il numero di conflitti politici era salito bruscamente a 402”. Cifre ancora più chiare nel rapporto dell’Ocha secondo il quale se è vero che “Nel 2016, sono state 38 le crisi ritenute molto violente, cinque in meno rispetto al 2015, nel decennio 2006 – 2016, i conflitti di media intensità e le crisi violente hanno registrato un aumento esponenziale, passando dalle 83 del 2006 alle 188 del 2016”.
Per combattere queste crisi umanitarie e migliorare la vita di milioni di persone, l’ex Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon ha presentato una nuova “Agenda for Humanity” che delinea cinque punti fondamentali utili, anche per l’Ocha, a ridurre non solo la sofferenza dell’umanità dovuta alla guerra, ma anche gli enormi costi economici dovuti alle violenze. Fondamentale per un’agenda mondiale veramente umana sarà “Prevenire e terminare tutti i conflitti” migliorando la leadership e le azioni preventive di mediazione; in caso di conflitto armato occorre “Rispettare le regole di guerra” e quindi la protezione dei civili e delle loro case al pari dell’assistenza umanitaria e medica; serve “Non lasciare nessuno indietro”, cioè affrontare la questione di profughi e degli sfollati assicurandosi che nessuno si dimentichi dell’educazione dei bambini durante le crisi; non si può dimenticarsi di “Lavorare in modo da porre fine ai bisogni”, senza assistenzialismo, ma attraverso lo sviluppo locale; ed infine è necessario “Investire in umanità”, puntando sulle capacità locali di risolvere i conflitti.
Per il recente rapporto Ocha se i governi del mondo si assumessero queste responsabilità nei confronti delle situazioni conflittuali sarebbe molto più facile aiutare l’Onu a raggiungere i suoi 17 obiettivi di sviluppo sostenibile entro il 2030, che inseguono la promozione di società pacifiche, giuste e inclusive, libere dalla paura e dalla violenza in un contesto di conservazione del pianeta. Sì perché se i costi umani e quelli economici sono i minimi comuni denominatori della guerra, non possiamo dimenticare i suoi costi ecologici e ambientali. Secondo il grande economista Nicholas Georgescu-Roegen, ispiratore della moderna economia ecologica, “per farsi la guerra il genere umano spende ogni anno 6 volte di più di quanto sarebbe necessario investire per realizzare un’economia ecologica, in grado di creare lavoro e lenire le ferite che abbiamo causato all’ambiente che ci dà la vita. È dunque la pace il primo viatico per l’economia ecologica”.
Un’economia pacificata che a quanto pare sarebbe più rispettosa anche dei diritti animali, visto che nel caso specifico dell’Africa, secondo lo studio “Warfare and wildlife declines in Africa’s protected areas”, sostenuto dalla National Science Foundation assieme al Princeton Environmental Institute e appena pubblicato su Nature da Joshua Daskin e Robert Pringle è evidente che “La guerra è stata un fattore costante nel decennale declino dei grandi mammiferi in Africa. A popolazioni che erano stabili nelle zone pacifiche è bastato solo un leggero aumento della frequenza dei conflitti per iniziare una spirale discendente”. Nel loro studio, Pringle e Daskin hanno sottolineano come sarebbe utile “vedere le organizzazioni dedite alla conservazione e quelle umanitarie collaborare nei lavori di soccorso post-conflitto. La ripresa a lungo termine di una società dipende dalla salute e dalla speranza delle persone e gli ambienti naturali sani e ricchi di biodiversità sono risorse che catalizzano la salute e la speranza umana”. È quello che si chiama un positive-feedback loop.