Tra il 1910 e il 1970 il Governo australiano ha sottratto alle famiglie aborigene circa 100.000 bambini, spesso sotto i cinque anni di età, nella convinzione che gli Aborigeni non avessero un futuro in Australia e che i bambini sarebbero cresciuti meglio se adottati da famiglie bianche.

di Amadeus Leaflets, 13/02/2018

 

Non deve essere stato contento Kevin Rudd, l’ex Primo Ministro che voleva fare la storia, quando ieri sera è uscito dal Parlamento di Camberra per tornare a casa. Non ci metteva piede dalla fine del suo secondo, breve, mandato, nel giugno del 2013. Gli ultimi ricordi di quel palazzo erano amari, gli aveva fatto bene starne lontano per un po’. Era tornato solo perché quella era un’occasione speciale: il decimo anniversario del suo discorso più importante. E i giornalisti cosa gli avevano chiesto? Un commento sulla segretaria incinta del Vice Primo Ministro…
Rudd aveva sfoderato il suo miglior politichese e ci aveva messo tre minuti a dire che non avrebbe assolutamente commentato. Ma dentro di sé intanto sorrideva dell’ironia: in fondo, era anche quello un problema di bambini…

Tra il 1910 e il 1970 il Governo australiano ha sottratto alle famiglie aborigene circa 100.000 bambini, spesso sotto i cinque anni di età. I bambini venivano rapiti in molti modi diversi: facendo firmare alle famiglie documenti che non capivano, facendoli sparire dagli ospedali durante le vaccinazioni, o facendoli prelevare a forza da ufficiali che si presentavano in auto in villaggi lontani da tutto. A motivare questa condotta incredibile da parte dello stato era la convinzione che gli Aborigeni non avessero un futuro in Australia e che i bambini sarebbero cresciuti meglio se adottati da famiglie bianche.
Le politiche di rimozione messe in atto dal Governo hanno causato l’allontanamento forzato di 1 bambino indigeno su 3. Gli effetti di tale rimozione sono stati, per la maggior parte delle vittime, multipli, nocivi e profondamente invalidanti. Le leggi sulla rimozione forzata erano discriminatorie, razziste e di intento genocida. In molti casi, hanno provocato violazioni del dovere fiduciario e dell’obbligo di assistenza, oltre che vere e proprie azioni criminali.

Queste sono le conclusioni a cui è arrivata, nel 1997, la Commissione per i Diritti Umani e le Pari Opportunità (HREOC), incaricata due anni prima dall’ufficio del Procuratore Generale di condurre un’inchiesta nazionale sulla separazione dalle loro famiglie dei bambini aborigeni e isolani dello Stretto di Torres.
Finiti i lavori, la presentazione del Rapporto “Bringing Them Home” (riportarli a casa) ha segnato un punto di svolta nel modo in cui l’Australia vede se stessa. A partire dall’anno successivo, infatti, ogni 26 Maggio si celebra il “Sorry Day” (giornata delle scuse): una delle raccomandazioni contenute nel Rapporto era proprio quella di istituire una data commemorativa. Ci sono voluti tuttavia altri 10 anni perché finalmente, il 13 febbraio 2008, l’allora Primo Ministro Kevin Rudd si alzasse in Parlamento per rivolgere un appassionato discorso alla Stolen Generation (la generazione rubata), porgendo le scuse da parte del governo australiano.

Lungi dal porre fine alla questione della Stolen Generation, le scuse di Kevin Rudd rispondono solo a una minima parte delle 54 raccomandazioni del rapporto. L’iniziativa di Rudd doveva essere il primo passo del procedimento riparatorio di una politica lesiva dei diritti umani, ma il percorso appare ancora lungo, mentre la spinta a cambiare le cose sembra affievolita.

Un articolo di SBS Insight fa notare che nel 1993 i bambini indigeni che risiedevano in strutture lontane da casa erano “solo” 2.419. Nel 2014-15 erano oltre 15.000, cifra aumentata del 65% dopo il discorso di Rudd. Nonostante i bambini aborigeni fossero solo il 5,5% dei bambini australiani tra 0-17 anni, essi rappresentavano il 35% dei bambini ospitati in strutture lontane da casa. I bambini indigeni di età compresa tra 1 e 4 anni avevano 11 probabilità in più di vivere lontano dalle famiglie d’origine rispetto ai bambini non-indigeni dello stesso gruppo di età.
Sembra quindi che i bambini indigeni, per motivi e in modi forse diversi, vengano “rimossi” dalle loro famiglie biologiche oggi più che in qualsiasi altro momento nella storia australiana. Tuttavia è difficile saperlo con certezza, dal momento che buona parte della documentazione anteriore agli anni ’90 è andata distrutta.

Nonostante la frustrazione causata dal rendersi conto che alle scuse non sono seguite iniziative riparatorie inadeguate, è bene non sottovalutare l’importanza che l’ammissione di colpa da parte del governo ha avuto per i sopravvissuti.
Come ha raccontato l’attivista aborigeno Steve Bunbadgee su The Guardian, riferendosi alle reazioni della sua gente dopo il discorso di Rudd, “non c’erano solo sentimenti di rabbia e ostilità. C’erano anche tanti bambini di ogni etnia che sventolavano bandiere aborigene. C’era un senso tangibile di unità e solidarietà tra la folla. I sopravvissuti anziani piangevano e si abbracciavano. È stato facile lasciarsi coinvolgere dalle emozioni in quell’occasione, ma non bisogna dimenticare che per gli anziani è stata una giornata difficile. Non capita spesso di celebrare ufficialmente l’ammissione di una ingiustizia ai nostri danni, tanto meno di farlo insieme alla comunità non indigena. Posso contare sulle dita di una sola mano i brevi momenti nella storia Australiana in cui ci siamo abbandonati ad emozioni collettive”.

Ogni anno, in occasione di questo anniversario, il governo presenta un nuovo rapporto del progetto “Closing the gap” (Colmando il divario). L’obiettivo finale è innalzare 7 parametri sulla qualità della vita degli aborigeni fino a portarli allo stesso livello dei non aborigeni. Le scadenze sono diverse per ogni obiettivo.
Il Primo Ministro Turnbull ha descritto i risultati dell’anno passato come i migliori dal 2011 ad oggi, ed è statisticamente vero. Tuttavia solo tre dei sette obiettivi stanno progredendo in linea con le scadenze, mentre altri quattro sembrano destinati a non essere mai raggiunti. Sono a portata gli obiettivi mortalità infantile, educazione primaria e conseguimento del diploma superiore. Ancora lontani invece gli obiettivi per aspettativa di vita, tasso di occupazione, alfabetizzazione e rispetto dell’obbligo scolastico minimo.

E’ questa l’Australia di oggi, dieci anni dopo le scuse ufficiali alla parte di sé trattata nel modo peggiore: un Paese profondamente diviso in due, finalmente consapevole del problema ma ancora incapace di risolverlo, infastidito dall’essere costretto a fare i conti con la propria imperfezione, ‘contento’ di star migliorando alcuni indici statistici da terzo mondo.
Il bicchiere, insomma, è mezzo pieno.

 

Traduzione di Leopoldo Salmaso