Valentin Mufila viene dal Congo, vive in Italia da sette anni e parteciperà all’incontro -dibattito “Illuminare l’oscurità – Come fare rete tra attivismo e giornalismo indipendente“, che si terrà il 20 gennaio alle 17 presso ekoné bar&shop a Luino. Lo abbiamo incontrato per porgli alcune domande sull’arte, la musica, l’integrazione e la convivenza tra i popoli.
Sei uno dei pochissimi musicisti africani a Varese, oltre che direttore artistico della cooperativa sociale multiculturale Ballafon. Nella tua esperienza, come può l’arte contribuire all’integrazione e al dialogo tra culture diverse?
Sì, siamo veramente pochissimi e questo mi dispiace, visto che la musica africana è ampia e tutti questi ritmi sono una ricchezza da fare conoscere un po’ di più in Italia e soprattutto a Varese. L’arte e la musica sono un linguaggio universale. E’ grazie alla musica che ho avuto i miei primi amici italiani, i miei primi lavori e la mia prima ragazza italiana. Con i miei amici della band Mapendo Africa Sound, con cui suono da cinque anni, lavoriamo inoltre con varie associazioni per sostenere progetti in Africa. Ho anche collaborato con molte associazioni di Varese per sostenere le vittime del terremoto di Amatrice e per la lotta al cancro al seno. Dunque per me la vera scuola d’integrazione è stata ed è la musica. Integrazione non significa rinunciare alla propria identità, ma conoscere l’altro e prenderne il lato positivo.
Nel 2016 hai creato il musical “Siamo tutti sulla stessa barca” con i ragazzi rifugiati seguiti da Ballafon. Puoi raccontarci meglio le finalità e le caratteristiche di questo progetto?
Il musical è un’idea mia e di Thierry Dieng, direttore per l’integrazione di Ballafon, che inoltre condivide con me la direzione artistica della cooperativa. L’abbiamo avuta nel 2015 e realizzata nel 2016. Volevamo creare un musical che parlasse della realtà dei migranti, visto che spesso la gente ci chiedeva: “Perché vengono qui in Italia?” A volte i discorsi non servono a nulla; è meglio lasciare che sia l’arte a parlare, a far conoscere al pubblico le tante ragioni che spingono a partire. Dittature, guerre dettate dagli interessi delle potenze economiche, cambiamento climatico, persecuzioni di tutti tipi … Poi il musical è anche una terapia per i ragazzi, che hanno bisogno di liberarsi mentalmente e psichicamente. E la cosa più bella è la condivisione con il pubblico, la gente che si avvicina per esempio a una ballerina o a un percussionista e dà loro più fiducia in se stessi. Vogliamo portarlo in giro per l’Italia, magari anche a Roma. Penso che questo spettacolo possa aprire tante porte.
Ultimamente hai lavorato anche nelle scuole, tenendo corsi di canti africani. Qual è stata la risposta dei bambini?
Nel 2017 il presidente della Ballafon Seydou Konaté e il direttore per l’integrazione Thierry Dieng mi hanno parlato di questo progetto nelle scuole e ho subito detto di si! Volevamo portare nelle classi almeno due rifugiati percussionisti per insegnare ai bambini i ritmi africani e dei canti spesso creati da me. E’ stato bellissimo! I bimbi si avvicinavano a noi senza timore, ci facevano tutte le domande che volevano e poi erano liberi di suonare e ballare. E’ una delle cose più belle che ho fatto nella mia carriera di musicista. Mi hanno detto che le scuole ci rivogliono ancora per quest’anno.
C’è qualche episodio particolarmente significativo che puoi descrivere e che dia speranza in questo momento in cui tanta gente si fa prendere dalla paura del diverso e da un egoismo razzista?
Ce ne sono tanti, ma quello più commovente è avvenuto quando una donna italiana con il figlio disabile si è avvicinata a me dopo un concerto dicendomi: “Quando lo porto ai tuoi concerti è molto felice, non l’ho mai visto così”. Da quel momento siamo diventati grandi amici. Le nostre diversità sono risorse incredibili. A me piacciono la pizzica del Salento, la musica napoletana, la vostra arte e la vostra identità e questo non ci impedisce di avvicinarci e di condividere le nostre identità. In fondo siamo tutti esseri umani con lo stesso sangue rosso e gli stessi organi.
Purtroppo la paura del diverso e l’egoismo ci saranno sempre. Fanno parte di noi, sono il nostro lato oscuro, ma l’essere umano ha anche dentro di sé il coraggio, l’amore, la solidarietà, ecc. E’ una questione di scelta: dobbiamo ascoltare il nostro lato positivo e quello che ci rende migliori.
Hai altri progetti in preparazione per quest’anno?
Oltre a portare in tournée il musical, ho molti altri progetti: un documentario di Giulio Fontana sulla mia integrazione in Italia con l’aiuto della musica, seguito da racconti sull’Africa antica. Vorrei approfittare di questa intervista per lanciare un appello a sostenere questo progetto che dà un bel messaggio di speranza, contattandomi via Facebook. Poi quattro single tutti scritti da me, con un misto di ritmi africani su testi in italiano e lingue africane e relativi video. A marzo un video dal titolo “L’autre”, basato su una poesia di Aimé Césaire, un grande poeta africano, realizzato da Cassandra Juliette Wainhouse, un’artista e pittrice francese e dal filmaker Renzo Carnio, con la mia collaborazione. Come attori ci saremo io, Nicola Tozzi, un insegnante di teatro molto noto a Varese e la sua allieva Céleste. Una bella opera sull’altro, con un messaggio di convivenza tra i popoli.