Il maggiore impedimento alla realizzazione della pace è che non esiste nella società una chiara e forte volontà di realizzarla. Certamente, e soprattutto nelle nuove generazioni, possiamo osservare un’aspirazione ad un mondo nuovo, globale, aperto alle diversità e senza guerre e conflitti, ma quest’aspirazione per adesso non si manifesta ancora con determinazione. Al contrario le priorità che muovono le persone e soprattutto i governi nelle decisioni concrete della vita di tutti i giorni sono altre.
Non dobbiamo farci ingannare dalle dichiarazioni ufficiali sulla pace, sulla civiltà e sulla cultura. Su questo punto non possiamo dimenticare il grande insegnamento di Tolstoj, che mise a nudo l’ipocrisia della civiltà occidentale. Dietro alle espressioni “guerra umanitaria”, “guerra preventiva” o “difesa dei nostri valori” troviamo una verità semplice e cruda: le guerre si fanno per interessi economici, per controllare le risorse, per imporre il proprio dominio, per sottomettere intere popolazioni.
Scopriamo una mentalità, una visione del mondo, un insieme di valori che possiamo sintetizzare cosi: usare l’altro come una cosa per realizzare i propri fini, a proprio vantaggio. Questo capita tutti i giorni nella nostra vita, in famiglia, sul lavoro, con gli amici. L’altro è una persona intelligente e interessante fin quando la pensa come me e facilita la realizzazione dei miei obbiettivi, ma quando non è d’accordo con me diventa inevitabilmente uno stupido e un nemico. Questa mentalità a livello più ampio fa sì che una piccola minoranza imponga il proprio dominio usando popoli interi, nazioni e stati come se fossero cose, come semplici oggetti, strumenti. Fin a quando questo sarà la mentalità dominante, sarà impossibile fermare le guerre. Perché le guerre non sono un incidente, un errore nel cammino, ma uno strumento essenziale per sottomettere gli altri alla propria volontà. In altre parole, la violenza in tutte le sue forme è la metodologia dell’attuale sistema sociale.
Questa frattura nella nostra esistenza, e di nuovo chiamiamo in causa Tolstoj, questa contraddizione tra ciò che si dice e ciò che si fa, si manifesta in numerosi modi. Facciamo alcuni esempi. L’Europa teme e condanna il terrorismo islamico, ma contemporaneamente vende armi a stati dittatoriali come l’Arabia Saudita, che sostengono e fomentano il terrorismo fondamentalista. Condanna la guerra, ma contemporaneamente vende armi a tutti gli attori in campo, come è accertato che sia accaduto in Libia, in Iraq e in Siria. Addirittura la guerra in certi casi non è nemmeno più una guerra di occupazione, ma la guerra in se stessa è il business, è l’occasione per vendere armi, per distruggere e ricostruire. Stiamo parlando di un’industria della morte il cui business è la guerra stessa!
Il migliore rappresentante di questa mentalità violenta è quello che da tempo viene chiamato il “complesso militare-industriale e politico”, una relazione molto stretta tra gruppi finanziari, industrie delle armi, vertici militari e governi. Il potere di questi gruppi è ogni giorno più forte. Anche lo stesso Presidente degli Stati Uniti, Obama, non ha potuto contrastare queste oligarchie nel suo tentativo di rendere più severa la legge che permette la vendita delle armi. Al contrario questa visione della società come un far west si sta esportando anche in Europa.
Osserviamo la tendenza a un forte aumento della spesa bellica, al ritorno al servizio militare obbligatorio e alla vendita libera delle armi per la difesa personale. Secondo i dati del SIPRI la spesa mondiale per gli armamenti è stata nel 2016 di 1.680 miliardi di dollari, con un incremento di quasi il 60% rispetto al 2000. Negli ultimi anni gli Stati Uniti stanno facendo grande pressione sui membri della NATO per aumentare la spesa militare, arrivando almeno al 2% del PIL. La conseguenza sarebbe, considerando solo i paesi europei della NATO, una spesa annuale di 295 miliardi di euro, cioè 80 miliardi in più di quella attuale, con un incremento del 37%.
C’è un chiaro disegno di creare terrore nella popolazione e militarizzare la società. Facciamo un esempio concreto. Dal 2013 è attivo nel cuore dell’Europa, in Repubblica Ceca, il programma chiamato POKOS, preparazione del cittadino alla difesa dello stato (si è cercato di attuare un programma simile anche in Italia), per pubblicizzare le attività dell’esercito in varie forme. Leggiamo nelle pagine del Ministero della Difesa: “dibattiti, conferenze, seminari, esercitazioni pratiche, mostre, giornate tematiche e di proiezione, attività artistiche, ludiche e di competizione e realizzazione di dimostrazioni per il pubblico su come garantire la difesa nazionale”. I seminari nelle scuole sono per studenti dai 10 ai 15 anni e in alcuni casi sono stati realizzati anche con bambini di 6 anni. Soldati in uniforme parlano della guerra e mostrano tecniche di difesa, come quelle da attuare nel caso di un attacco nemico con armi chimiche. Si mettono a disposizione dei bambini le armi per avvicinarli all’idea di essere in futuro soldati. Questi incontri vengono organizzati su richiesta del direttore della scuola senza interpellare o informare i genitori.
La reazione a questo indottrinamento finora è stata blanda. Anzi, molte persone ripetono a memoria gli slogan della propaganda militarista, come la frase: “Se vuoi la pace, preparati per la guerra”, mentre altri reagiscono con rassegnazione e indifferenza.
Siamo di fronte ad una crisi profonda della società, da cui si può uscire solo con una profonda trasformazione. Stiamo parlando di una concezione dell’essere umano, di una mentalità di dominio e di una organizzazione sociale ed economica che hanno portato alla prima guerra mondiale e alla tragedia immane della seconda. Nella commozione del dopoguerra gli sforzi a favore della pace sono stati grandi, ma insufficienti per cambiare i fattori che avevano portato a quei grandi conflitti. E oggi ci troviamo, come la chiama Papa Francesco, in una terza guerra mondiale a pezzi. Non si supera tutto questo solo con alcune riforme o aggiustamenti secondari. Cercare soluzioni immediate e pragmatiche senza una riflessione profonda rientra proprio in quella mentalità ristretta e materialista che vogliamo superare
E’ necessaria una nuova visione del mondo, che metta l’essere umano come valore e preoccupazione centrale, non il business, lo stato, la nazione o altre entità. Bisognerà sviluppare uno spirito di collaborazione e non di competizione, comprendere che il proprio beneficio è e deve essere anche il beneficio e la crescita di chi ci circonda. Si dovrà capire che viviamo in un villaggio globale e che, come dice Silo, il progresso di pochi finisce per essere il progresso di nessuno. Parliamo di un risveglio dell’essere umano, di prendere coscienza del proprio essere nel mondo, di ritrovare quel senso della vita smarrito nel tumultuoso cammino della storia.
Questa nuova visione del mondo, questo nuovo orizzonte culturale si manifesterà concretamente in alcune decisioni importanti. Facciamo solo alcuni esempi:
-Disarmo nucleare, anche solo a causa di un incidente non si può rischiare un enorme disastro umanitario.
-Ritirare le truppe da tutti i territori occupati.
-Inserire nei programmi educativi nelle scuole lo studio della nonviolenza e del pacifismo.
Questo grande cambiamento e questa nuova visione della vita non avverranno nei governi e nelle istituzioni o in altri centri di potere, né ne daranno notizia i mezzi di informazione. Perché questo nuovo sguardo nascerà nel cuore delle persone semplici, in silenzio, nella riscoperta dell’antica legge morale “Tratta gli altri come vuoi essere trattato”.
Intervento di Mondo senza guerre e senza violenza ad una tavola rotonda organizzata da Social Watch a Praga.