L’interrogatorio e la successiva perquisizione da parte degli investigatori italiani dell’ufficio e dell’abitazione della tutor di Giulio Regeni a Cambridge, Maha Abdelrahman, ha ridato forza alla cosiddetta “pista Cambridge” e ha scatenato sui social media l’entusiasmo dei suoi fautori.
È necessario ribadirlo ancora una volta: sia benvenuta ogni azione investigativa che aiuti a comprendere il contesto nel quale è maturato l’omicidio di Giulio Regeni e ad accertare eventuali responsabilità di natura morale o civile da parte di persone che lavorano all’università di Cambridge. Essere ambigui o reticenti su questo punto sarebbe un atto contrario alla ricerca della verità.
Quello che è stucchevole è l’approccio da tifoseria che caratterizza parte del dibattito e non solo in questi ultimi giorni, in cui domina il contrasto assoluto sottolineato dalla congiunzione “o”. In sintesi, o “è stata Cambridge” o “è stato l’Egitto”, o la tutor Maha Abdelrahman o il presidente Abdel Fattah al-Sisi. E se “è stata Cambridge”, non ci si deve rimproverare affatto di aver ripreso normali rapporti diplomatici con l’Egitto.
Sarebbe bene sostituire quella “o” con una “e”. E, per l’appunto, non dimenticare mai che Giulio è stato sequestrato, fatto sparire, torturato e assassinato in Egitto, ad opera di funzionari dello stato egiziano e che finora le autorità egiziane non hanno collaborato all’accertamento della verità.
A quanto pare, neanche a Cambridge – tra i mille “non ricordo” e “non so” – si è scelto di essere trasparenti e collaborativi.
Le responsabilità, di diverso grado e rilevanza sul piano strettamente penale, occorre continuare a cercarle al Cairo “e” a Cambridge.