Veramente erano qualcosa di più di due note. E poi accompagnavano delle voci straordinarie e poi, dietro alle voci i testi e dietro ai testi la ricerca. Possiamo chiamarla ricerca storica, o meglio antropologica, anche se i ricercatori in questione, ovvero le “Voci di mezzo” non sono propriamente degli antropologi.
Stiamo parlando di una serata al circolo Arci della Bovisa, periferia di Milano ed ex polo industriale, oggi piuttosto abbandonata anche se in fase di restyling e indiscutibilmente vivacizzata dal politecnico di ingegneria e da pochi ma attivi centri di aggregazione socio-culturale come il circolo La Scighera in cui si svolgeva la serata. Un aperitivo musicale, così è stato presentato, che aveva per tema “echi di galleria”. Per galleria s’intende quella, anzi quelle, scavate dai minatori.
Poteva essere una serata piacevole come tante, tra musica, chiacchiere e vino come succede nei circoli Arci, in quel caso non avrebbe avuto senso scriverne, sarebbe stato sufficiente parlarne tra amici. Se invece ne stiamo scrivendo non è per la bellezza delle voci. Ne stiamo scrivendo perché i canti raccolti e riprodotti da Lorenzo Valera, Leila Sage e Nicolas Potin, erano quelli dei nostri migranti. Non migranti antichi, a quelli magari si faceva anche qualche cenno, ma migranti del ‘900, in fondo migranti di pochi decenni fa. Quelle migrazioni così tragiche e così storicamente vicine che interrogano il presente. E’ questo che ci ha spinto a scriverne.
Si è parlato e cantato del disastro di Marcinelle, rigorosamente pronunciata con la “c” e la “e” finale all’italiana perché i nostri minatori erano infinitamente meno colti della media dei migranti che sono arrivati in questi anni in Italia, e il francese loro non lo conoscevano.
Era solo il 1956 quando nella miniera belga si verificò l’incendio che uccise centinaia di minatori. Il ’56 non è così lontano, tanto che almeno la metà dei presenti nella gremitissima sala in cui si teneva il concerto, nel ’56 era già nata. Ma come mai in Belgio c’erano tanti italiani? ha chiesto un ragazzo di una ventina d’anni. C’erano perché, a oltre dieci anni dalla fine della guerra, in tanti paesi italiani si faceva la fame. Non erano rifugiati politici, era gente che cercava lavoro. Quel lavoro che in Italia mancava.
L’Italia aveva bisogno di energia, di combustibili, di carbone. Il Belgio invece aveva bisogno di braccia, di forza-lavoro. Così, poco dopo la fine della II guerra mondiale, tra Italia e Belgio si stilò un protocollo: braccia contro carbone. E 44.000 italiani in cerca di lavoro partirono per le miniere. Non venivano fermati alle frontiere, non perché i governi di allora fossero più umani di oggi, ma perché il capitale aveva deciso che potessero andare, anzi, che “dovessero” andare. Non c’erano le oziose dispute attuali sul concedere asilo o permesso di soggiorno solo a chi fuggiva dalla guerra e non a chi era colpevole di fuggire soltanto dalla fame. Erano gli ultimi flussi migratori, poi in Italia ci sarebbe stato il “boom” e la migrazione sarebbe stata interna: dal sud impoverito post Risorgimento, al nord industrializzato. Poi, qualche decennio ancora e l’Italia sarebbe passata da paese di emigranti a paese di immigrati. Pochi decenni, eppure non a tutti è chiaro.
Ma tornando ai minatori e ai loro canti, ben spiegati prima di essere affidati alla musica, facciamo un salto un po’ più indietro, andiamo agli inizi del ‘900, quando tanti italiani attraversavano l’oceano e non solo le frontiere alpine. Non c’erano gli scafisti allora, ma i disastri non mancavano. Poi, una volta sbarcati, quelli che riuscivano a sbarcare, andavano a ingrossare le fila dell’esercito industriale di riserva o quello dei lavoratori ad alto rischio e basso costo. Succedeva circa cento anni fa. In fondo sono solo quattro generazioni, cioè il tempo che passa da un bisnonno a un pronipote e storie che potrebbero essere state addirittura raccontate dalla viva voce del protagonista a un nipotino poi magari diventato magari o strenuo difensore delle patrie frontiere.
Si potrebbe ricordare anche il disastro di Monongah, in Virginia. Erano i primi anni del ‘900, le gallerie in cui si scavava il carbone esplosero. Morirono circa mille persone, tra queste tanti italiani andati laggiù per sfuggire alla fame in patria. Le misure di sicurezza costavano troppo al capitale becero di quell’America narrata, già allora, come democratica e proprio tre italiani che poco tempo prima avevano organizzato uno sciopero per ottenere maggiore sicurezza sul lavoro furono barbaramente linciati.
Si potrebbero anche ricordare i disastri di Dawson, nel New Messico, in cui morirono altre centinaia di migranti che a Dawson avevano davvero “trovato l’America” perché i dirigenti delle miniere avevano creato una vera città mineraria con case, ospedale, piscine e campi da gioco per i minatori e le loro famiglie. Ma le misure di sicurezza erano una palla al piede per l’estrazione del carbone e così, anche il capitale “dal volto umano” si macchiò di centinaia di morti.
Oggi non succede più, non in quel campo, ma solo perché il carbone non è più richiesto. I morti sul lavoro, in altri campi, riempiono ancora la cronaca. Dawson ora è città fantasma e il cimitero dei minatori è diventato museo nazionale. Ci si va per turismo! Anche a Marcinelle il sito di Bois du Cazier, dove avvenne il disastro, è ormai fuori uso. Ironia della storia, o della sorte, l’UNESCO ne ha fatto patrimonio dell’Umanità. Forse intendevano farne un monito per l’umanità, ma siamo ancora lontani dalla comprensione universale di quel che significa migrare ed essere sottoposti alle leggi del capitale.
Tra i canti dalle miniere uno in particolare lancia però un messaggio. Come spiega Lorenzo prima di cantare Marcinelle, i minatori avevano un forte senso di appartenenza e di dignità del loro durissimo lavoro e delle loro giuste e non rispettate rivendicazioni. Non la pensava nello stesso modo la stampa belga di allora, né l’opinione pubblica che da certa stampa era indirizzata. Sembra di leggere qualche nostro fogliaccio attuale riferito ai migranti che ora sono in Italia. Cambia solo il soggetto, là si diceva di “italiani che non vogliono integrarsi, che vogliono sfruttare l’ospitalità e poi andarsene altrove senza riconoscenza e che quindi sono responsabili della loro misera condizione”. Saranno gli immigrati di seconda generazione ad avere il riscatto sociale, ma per un terribile difetto insito nel “dna sociale” di tanti esseri umani, il passato si dimentica e si diventa spesso persecutori di chi, a distanza di non molti anni, è costretto a ripercorre un sentiero analogo a quello familiare, ma ormai rimosso.
I minatori italiani che 60 anni fa composero il canto “Marcinelle” non volevano dimenticare i morti, ma far sì che la tragedia divenisse l’occasione per il riconoscimento sociale da parte del paese ospitante. Sarebbe bastato anche solo questo a dar senso, potremmo dire “politicamente e umanamente didattico”, alla serata alla Scighera. Mentre le “voci di mezzo” cantano “Sepolti ad uno ad uno, complice oblio / per voi vogliam riscossa e non addio… morti di Marcinelle quella miniera / non sarà più una tomba, ma una bandiera” si capisce che quella bandiera simbolica non voleva parlare solo ai minatori italiani ma a tutti i morti e gli sfruttati del capitale mondiale. Ma non è un messaggio così facile da far passare e per questo la memoria, con o senza musica, ha la sua importanza.
A fine serata qualcuno ricorda che presto si andrà a votare e sappiamo che la questione migranti verrà usata, anche ignobilmente, accompagnata da termini come sicurezza, lavoro rubato o dalla magica espressione “aiutiamoli a casa loro”. Chissà che nell’ex quartiere operaio della Bovisa, oggi sede del politecnico universitario, le note di ieri sera suonino più familiari della propaganda elettorale “ad excludendum” e che, magari, arrivino anche oltre, camminando su quel filo che parte dalla storia, più o meno lontana, e si ferma sul presente chiedendo risposte politiche che della storia sappiano tener conto.