Una saggia e benvenuta decisione, quella presa il 22 gennaio dal governo del Bangladesh di sospendere l’attuazione del piano, concordato la scorsa settimana con quello di Myanmar, che prevedeva il rimpatrio di circa 650.000 rifugiati rohingya nel giro di due anni, a cominciare da 1.500 rientri alla settimana.
Un piano che le organizzazioni per i diritti umani avevano fortemente criticato e che avrebbe costretto centinaia di migliaia di persone a tornare, contro la loro volontà, in quelle condizioni di violenza e di apartheid che ne avevano causato la fuga.
Attuare un accordo senza risolvere i motivi di fondo – in poche parole, un regime di apartheid in cui ai rohingya è persino negata la cittadinanza – sarebbe insensato e violerebbe il diritto internazionale. Bene, dunque, averlo sospeso.
Tuttavia, se l’annuncio del governo del Bangladesh può offrire temporanea protezione ai rifugiati rohingya rispetto al rischio di subire nuova violenza, c’è assolutamente bisogno di una soluzione duratura che riconosca il diritto dei rifugiati rohingya a essere protetti dai rimpatri forzati in un paese dove oggi come oggi rischiano di subire gravi violazioni dei diritti umani.