Martedì 16 Gennaio, Bangladesh e Birmania hanno formalizzato e reso ufficiale l’accordo (raggiunto già a Novembre dello scorso anno) per l’ideazione di un piano biennale di rimpatrio per i rifugiati Rohingya. Esso prevede la creazione di cinque campi di transito sul suolo bengalese e due campi di accoglienza in territorio birmano. Il numero di Rohingya fuggiti dalla regione del Rakhine (della quale costituivano un terzo della popolazione totale), dopo il picco di violenze di fine Agosto, è salito fino a circa 750.000 persone. La messa in atto del piano, inizialmente fissata per Martedì 23 Gennaio, è slittata a fine mese, mentre la durata stimata per l’intera evoluzione del progetto è di circa due anni.
Contrariamente a quanto il quadro generale potrebbe far pensare, la situazione in Birmania non sembra essere migliorata rispetto agli ultimi mesi. Maung Zarni, attivista birmano per i diritti umani, ha denunciato in un’intervista rilasciata ad “Al Jazeera” il 10 Gennaio, come la via intrapresa dal governo del paese rimanga quella del negazionismo nei confronti di quella che è stata a più riprese definita dall’ONU una vera e propria “pulizia etnica” ai danni della minoranza musulmana.
Un’altra interessante testimonianza ci arriva da Mark Farmaner, Direttore Esecutivo della “Burma Campaign UK”. Egli sottolinea come i maggiori media birmani abbiano fino ad ora focalizzato gran parte dell’attenzione su Aung San Suu Kyi, ignorando però, il fondamentale ruolo che in questo caso gioca Min Aung Hlaing, comandante dell’esercito. La de facto leader, infatti, non ha alcun potere sull’esercito (vero e proprio interprete delle rappresaglie); ciò che però le viene aspramente rimproverato dalla comunità internazionale, è di non aver mai preso una chiara posizione a riguardo.
Tornando al piano di rimpatrio, nonostante sulla carta sembrerebbe poter aprire una finestra di dialogo tra i Rohingya e il governo, rimangono forti dubbi che esso possa coincidere con una rivalutazione della minoranza a livello sociale. A sollevare delle perplessità sono state numerose organizzazioni umanitarie internazionali, le quali ribadiscono come le condizioni per un rimpatrio sicuro siano premature.
Solo il tempo saprà dirci se il piano costituirà la chiave di volta di una situazione che fino ad ora rimane spinosa e difficile da decifrare.
Francesco Maria Cricchio