Beati i partiti che non hanno bisogno di leader. Verrebbe da dire, parafrasando Bertold Brecht, osservando la tendenza in atto dagli anni ’90 (Berlusconi docet) a “personalizzare” i gruppi politici. Un tempo non lontano a nessuno sarebbe venuto in mente di inserire nei simboli elettorali il nome del leader pro-tempore del partito o del movimento politico. Purtroppo oggi molti elettori votano non per scegliere un programma o un candidato nel collegio elettorale, ma quasi come un atto di fede nel leader in cui si identificano. Non si spiegherebbe altrimenti perché le campagne elettorali siano sempre più simili ad operazioni di marketing.
Per questa ragione ormai sulla scheda da inserire nell’urna elettorale siamo abituati a trovare i nomi di quasi tutti i leader di partito: Berlusconi, Bossi, Salvini, Fini, Meloni, Casini, Alfano, Di Pietro, Monti, Grillo, Vendola e persino Veltroni nel 2008. Non fa eccezione nemmeno il logo della neonata formazione politica “Liberi e Uguali”, in cui compare anche la scritta “con Pietro Grasso”.
La Costituzione italiana contiene implicitamente un’idea diversa della politica, fondata sulla partecipazione comunitaria alla costruzione della polis. Oggi invece prevale una sorta di indifferenza o di sottovalutazione della politica: lo si vide chiaramente dalla scarsa affluenza alle urne. Il voto non è più sentito come inderogabile dovere civico, perché negli ultimi anni si è creata un’evidente frattura nel sistema democratico. E quando il coinvolgimento dei cittadini è scarso, ci si affida ai leader: una delega che sembra una cambiale in bianco. Il popolo, benché sovrano, sembra confinato in esilio o almeno in una lontananza da cui è chiamato ad uscire quando le urne si aprono. Il voto è diventato un plebiscito pro o contro il “capo” del momento. Ad esempio il referendum costituzionale dello scorso anno per molti è stato un sì o un no a Matteo Renzi.
Non bisogna dimenticare che – grazie alle recenti leggi elettorali – da oltre 20 anni in Italia in Parlamento viene eletta una classe politica in maggioranza composta da nominati, cioè dai fedelissimi dei leader. Ma non bisogna fare l’errore di pensare che la “colpa” sia soltanto dei leader. Chi ha approvato le attuali leggi elettorali è stato democraticamente eletto. Senza contare che nessun leader può durare a lungo senza un reale sostegno popolare. A molti elettori piace lamentarsi della politica e dei politici, salvo poi rivotarli, nonostante tutto.
Ci troviamo in un circolo vizioso da cui è difficile uscire. Forse bisognerebbe cominciare a dare qualche segnale di cambiamento, per esempio cominciando a sostenere che il leaderismo non è un buon metodo per costruire una democrazia in cui tutte le persone siano protagoniste delle scelte politiche. E magari smettendo di dare il voto a quei partiti o movimenti che insistono a scrivere i nomi dei leader dentro simboli che dovrebbero essere collettivi. Il giudizio degli elettori resta comunque uno strumento utile per evitare il ripetersi di gravi distorsioni dello spirito costituzionale. Sempre che l’elettore voglia dimostrare di avere la schiena diritta e la consapevolezza che la politica sia qualcosa che ci appartiene. Un prete di montagna morto 50 anni fa direbbe “we care”, perché “sortirne tutti insieme è la politica”.