Domenica 19 novembre si è svolto in Cile il primo turno delle elezioni presidenziali, in concomitanza con le elezioni per il rinnovo del parlamento. Sebastián Piñera, l’ex presidente imprenditore milionario che aveva retto le sorti del paese dal 2010 al 2014, era dato come vincitore secondo i sondaggi. Alla fine è stato sì il candidato più votato, ma è riuscito a racimolare un magro 26,6% dei voti, quando i sondaggi gli davano almeno 18 punti percentuali in più. Il fatto dei sondaggi poco attendibili ha fatto scattare numerose polemiche, dirette principalmente verso il CEP, Centro di Studi Pubblici, think tank fondato in piena dittatura e tradizionalmente legato agli ambienti di destra.
A disputare a Piñera la presidenza cilena nel ballottaggio che si terrà il 17 dicembre sarà Alejandro Guillier, che ha ottenuto il 22,7% dei consensi. Guillier è il candidato della coalizione di centro-sinistra della presidenta uscente Michelle Bachelet. Va tenuto presente che il consenso verso il governo Bachelet era sceso ai minimi storici, soprattutto a causa di alcuni scandali di corruzione che l’avevano coinvolta assieme al figlio e alla nuora. La sfiducia e la disaffezione nei confronti della politica dovuta a questa ed altre dinamiche, certamente non esclusive del panorama cileno, spiegano in parte la bassissima affluenza alle urne in queste presidenziali, affluenza che è stata inferiore alla metà degli aventi diritto al voto. Certo va dato merito al governo Bachelet di avere attuato misure importanti in tema di diritti civili: è stato finalmente approvato il diritto all’aborto, che era completamente vietato in Cile, almeno in tre casi (gravidanza in seguito a violenza, pericolo di vita della madre e gravi malformazioni del feto) ed è stato presentato un disegno di legge che introduce il matrimonio per persone dello stesso sesso, unito alla possibilità di adozione. Sono state anche avviate alcune timide riforme in materia di educazione, una delle grandi problematiche del paese che, soprattutto a partire dal 2006 e poi dal 2011, aveva fatto insorgere intere generazioni di studenti che chiedevano gratuità dell’accesso all’educazione, in un paese dove, a causa della fortissima disuguaglianza e dei costi dell’educazione, quasi il 60% della popolazione attiva non ha portato a termine la scuola superiore (obbligatoria).
La grande sorpresa di queste elezioni è stata data però dal risultato del Frente Amplio, con 20 deputati ed un senatore eletti in parlamento e la candidata outsider Beatriz Sánchez che ha ottenuto il 20,3% dei voti. Sánchez ha mancato dunque per un soffio il ballottaggio, sicuramente penalizzata dai sondaggi della CEP che la davano soltanto all’8%. Il Frente Amplio è una coalizione di sinistra con solo un anno di vita che si propone come alternativa rispetto al bipartitismo classico cileno. La coalizione unisce i partiti Revolución Democrática e Partito Umanista, oltre che vari movimenti politici che vanno dai libertari ai cattolici di sinistra e che in gran parte raccolgono l’eredità del movimento studentesco cileno del 2011. La coalizione è stata paragonata allo spagnolo Podemos, anche se certo vanno fatte distinzioni dati i contesti tanto diversi. E’ vero però che come Podemos il Frente Amplio raccoglie il malessere di parte dell’elettorato di sinistra del paese, che non si è sentito rappresentato dalla via moderata della Nueva Mayoría e che cerca una rinnovata partecipazione e protagonismo nella vita politica istituzionale del paese. Non è chiarissimo se il Frente Amplio si ponga come forza che propone un rinnovato progressismo pur all’interno di un contesto neoliberale che pare destino immutabile del Cile, o se invece vi sia una critica radicale che mira ad un cambiamento più strutturale (comunque difficile, vista l’esiguità della rappresentanza e la conformazione del sistema politico e sociale cileno). Il Frente Amplio appare come un tentativo di una transizione verso una politica più inclusiva, più collettiva e che risponde ad una necessità di cambiamento e partecipazione a livello della società civile. Fenomeno questo che si dà in Cile così come in altri contesti, a testimoniare un’epoca di cambiamento epocale in cui la democrazia rappresentativa non sembra più essere in grado di dare risposte efficaci a numerose domande della società civile.
Non è una vera e propria sorpresa in un paese profondamente conservatore come il Cile, ma è comunque un dato preoccupante l’8% dei voti ottenuti da José Antonio Kast, candidato di una coalizione indipendente di estrema destra, nostalgica del regime militare di Pinochet. Kast, che ha affermato tra le altre cose che durante la dittatura si fece molto a favore dei diritti umani, ha visto tra i finanziatori della sua campagna elettorale vari personaggi legati al regime, tra cui, sebbene solo con una cifra simbolica, un ex-membro dell DINA, la polizia segreta dell’epoca della dittatura, responsabile di innumerevoli casi di tortura, sequestri, omicidi e altre violazioni dei diritti umani.
Nel paese vi è stato un certo arresto della crescita economica, dovuto principalmente al calo del prezzo del rame, base di un’economia in gran parte dipendente dall’esportazione di questo prodotto, con una conseguente perdita del potere d’acquisto di larghe fasce della popolazione. In quello che è il paese con il livello di disuguaglianza più alto fra i paesi dell’OCSE, questo dato preoccupa molto la cittadinanza che, vista la traiettoria storica del paese, si sente tradizionalmente più consumatrice che titolare di diritti. Le promesse di Piñera in questo senso possono apparire allettanti in certi settori, tutte basate come sono sulla ripresa economica, il sostegno alle imprese e la creazione di posti di lavoro. Il risultato del ballottaggio è però ancora del tutto imprevedibile e molto dipenderà dalle alleanze che si riusciranno a stabilire. Non è ad esempio per nulla scontato il sostegno del Frente Amplio al candidato della Nueva Mayoría, e da un lato potrebbe essere più conveniente per il Frente Amplio avere un Piñera vittorioso contro il quale raccogliere consensi e rivendicazioni per costruire una coalizione più solida che possa puntare alla vittoria alle prossime presidenziali, magari attirando il voto anche dei molti che non si sono recati alle urne al primo turno e a maggior ragione non lo faranno al ballottaggio.
Michela Giovannini