Intervista di Gianluca Carmosino a Massimo De Angelis*
In ogni angolo del mondo emergono pratiche che aprono spazi di imprevedibilità: nuove forme di aggregazione politica rifiutano, in modi differenti, il dogma del profitto, sottraggono al mercato tempo, relazioni e saperi, per porre le fondamenta di un autentico e variegato movimento. È quello che alcuni chiamano arcipelago dei commons, a cui Massimo De Angelis ha dedicato il suo ultimo libro, Omnia sunt communia (2017), pubblicato in diversi paesi. Secondo Peter Linebaugh, uno dei più autorevoli storici dei beni comuni, si tratta di un testo “profondo e sorprendente” che ha imposto De Angelis “come una voce importante nella discussione mondiale sui commons”. Di seguito, una conversazione con Massimo De Angelis, apparsa nel 15° Rapporto sui Diritti globali “Apocalisse umanitaria” (Ediesse).
Omnia sunt communia, cioè “tutti i beni in comune”, è un’espressione biblica che oltre a descrivere una pratica di vita degli oppressi nel periodo dell’Impero Romano, è anche lo slogan della rivolta contadina dell’Europa centrale del XVI° secolo, ed è ora il titolo del tuo ultimo libro. L’intento della tua ricerca, nella quale racconti ad esempio la lotta dell’acqua di Cochabamba, le cliniche sanitarie auto-organizzate in Grecia, movimenti come Occupy e 15M, è di mostrare l’emersione di un universo di nuove e differenti forze sociali che tentano di cambiare il mondo in profondità?
Si certo, anche questo, ma non solo. I movimenti che ho descritto sono solo la punta di un iceberg di questo processo sociale della produzione dei commons che ha radici profonde nella storia e in tutte le culture, e che sopravvive anche oggi nella vita quotidiana di miliardi di persone, nonostante la ferocia del capitale neoliberale. La novità di oggi non è nell’emersione di questi movimenti, che comunque mostrano caratteristiche innovative rispetto al contesto dove si trovano, ma nel fatto che siamo in grado di ragionare su questa grande varietà di movimenti a livello mondiale e trarne ciò che hanno in comune nonostante le loro forme diverse. Il mio libro ha quindi lo scopo da una parte di riconoscere la diversità di queste forme del fare in comune nonostante la loro opacità dietro lo spettacolo mediatico, e dall’altra la ricchezza e la forza sociale che riusciremmo a mettere in campo se queste realtà riuscissero a coordinarsi sempre di più, ad aprire una realtà ricompositiva e rivendicativa. Ciò avviene quando i commons, generalmente immersi nella loro quotidianità, si trasformano in movimenti dei commons.
Viviamo immersi in un sistema che impone relazioni sociali fondate sull’ansia di accumulare, cioè sul dominio e sul profitto. Quell’ansia ha, tra le sue molte conseguenze, quella di occultare i diversi modi di vivere diffusi, nonostante tutto, ovunque e da tempo. Ha senso tentare di riconoscerli cominciando da quelle che tessono, giorno dopo giorno, nuove esperienze comunitarie in spazi periferici poco visibili, cioè nei quartieri delle metropoli europee o nordamericane come nei deserti africani e negli altipiani asiatici o andini?
Il senso del riconoscere queste realtà di riproduzione della vita oltre il capitale, è quello di cercare i presupposti sociali per andare oltre il capitalismo. Queste realtà ci sembrano spesso piccole e insignificanti rispetto alle mastodontiche e spesso deliranti costruzioni del lavoro asservito al capitale. Ma se si guarda attentamente la cosa, questo è solo un problema di diffusione e di scala, e la diffusione e la scala è una questione evolutiva e politica. La prima è molto semplice, ed è che essa dipende dalle forze sociali che queste realtà riescono a costruire nel tempo e dal loro rapporto con il sistema stato e il sistema capitale. Non siamo in grado di predire questa evoluzione. Gli scienziati che guardano ai possibili scenari del futuro riconoscono la possibilità che ci sia un evoluzione verso una società fatta di zone autosufficienti collegate tra loro, con una possibile ma non inevitabile amministrazione o coordinamento centrale fondamentalmente molto più democratica di quella che sia oggi, dove i grossi problemi di oggi sono se non risolti, almeno in via di risoluzione. Tuttavia questa “ecotopia” è solo una delle possibilità. Gli altri scenari sono molto più inquietanti. Uno è un capitalismo che continua imperterrito il suo istinto all’accumulazione senza limiti, sfondando di gran lunga il limite ecologico, e dando vita a un mondo di muri sempre più alti e spessi tra i molto pochi che hanno tanto e la stragrande maggioranza che ne soffrono le conseguenze. Un altro e la visione di un sempre più potente e sempre meno democratico governo che gestisce l’economia capitalista al limite della capacità ecologica del pianeta. Io non credo che questo modello né sia possibile né sia desiderabile, e credo quindi che l’unica alternativa al primo modello sia la povertà di massa e la rovina del pianeta. Lo scienziato Steve Hawking d’altra parte ha predetto che in duecento anni il pianeta sarà abbandonato in rovina, e non credo che dieci miliardi di persone riusciranno tutte a trovare rifugio.
Dunque noi oggi abbiamo una grande questione politica di fronte. Questa ha due aspetti fondamentali. In primo luogo, il valore di queste attività e modi di produrre alternative è che esse ci permettono di sottrarre parte della nostra riproduzione alla gestione del capitale, e quindi a deciderne i contenuti e le forme. Per esempio, un’economia solidale del grano e della farina, ci permette di valorizzare tipi di grani antichi a basso contenuto di glutine, politicizzare il prezzo del pane, mettere in questione i metodi di panificazione, costruire forme collettive eque di produzione e distribuzione, porre la questione ecologica al centro del nostro fare in comune, e perfino distribuire il lavoro. Questa sottrazione contribuisce a liberare il nostro tempo dai ritmi e i valori del capitale, e aumenta il nostro grado di autonomia dai suoi ricatti. Non diventiamo quindi più liberi di produrre ciò che vogliamo nei modi che vogliamo, ma anche un po’ più risilienti nella nostra riproduzione, cioè in grado di meglio contrastare le crisi che ci vengono imposte dal sistemo economico dominato dal capitale. Il secondo aspetto del problema politico è quello affermativo. È chiaro che la diffusione e la scala dei commons deve aumentare per far fronte alle grandi sfide del presente, e qui importante cominciare a pensare un percorso ricompositivo di queste realtà che ne aumenti la forza rivendicativa e che riesca a comunicarne il valore propositivo ad altri settori della moltitudine. Un esempio nel presente è la pressione fiscale sulle famiglie e le comunità che si autorganizzano per la loro riproduzione, che dovrebbero vedere una drastica diminuzione di tasse sui pochi redditi che riescono ad accedere o sull’iva pagata per le merci che devono comunque acquistare per la loro riproduzione. Un altro esempio è l’accesso a terre o edifici in disuso spesso per fini speculativi o di semplice abbandono o demaniali, che varie comunità potrebbero usare per aumentare la diffusione dell’economia solidale e dei commons. Un altro esempio è la domanda crescente alla riterritorializzazione dei processi di riproduzione, a partire dal cibo a Km Zero all’interno di economie solidali, ma anche la sanità, l’educazione e la cultura. Infine, un altro esempio, è un reddito sociale che permette a tutti una minima sussistenza, e quindi un po’ di respiro non solo per sopravvivere all’interno del capitalismo, ma anche per poter meglio affrontare la transizione verso forme di vita e di riproduzione diversa insieme ad altri. Infatti, la domanda per un reddito sociale, non può darsi solo allo scopo di finalità assistenziali all’interno di un modello produttivista capitalistico. La nostra battaglia è una battaglia sui valori del fare in comune e quindi delle modalità dello stare insieme agli altri e dagli obiettivi che ci poniamo collettivamente. Un reddito sociale deve essere visto come uno strumento tra tanti per la trasformazione del presente verso un altro modo di produrre e riprodurre le nostre vite.
Quali altre esperienze importanti, a proposito di “buone pratiche dal basso” sui beni comuni, racconti nel libro?
Ho lavorato attivamente sul mio libro per dieci anni, ma ho cominciato molti anni prima ad essere incuriosito, sorpreso ed entusiasmato da forme alternative di produzione e riproduzione. Il mio primo incontro con spazi autogestiti è stato durante gli anni settanta quando da adolescente studiavo e lottavo insieme ad altri studenti e lavoratori. Aule studenti e scuole occupate, manifestazioni in piazza, i racconti delle femministe sulle cliniche gestite da donne, centri sociali, radio libere. Tutta questa esplosione di libertà collettiva, è entrata nel mio Dna proprio quando aprivo gli occhi sul mondo e diventavo uomo. Dopo molti anni, il mio incontro con gli zapatisti nel primo encuentro per l’umanità e contro il neoliberismo, ha rotto il torpore degli anni del riflusso, che in effetti non c’è mai stato nel sud del mondo, e ha ravvivato in me la speranza che un mondo radicalmente migliore sia non solo necessario ma anche possibile. Nel mio libro accenno solo a queste esperienze. Oltre a quelle che hai accennato, nel mio libro parlo delle forme di riappropriazione dell’acqua che ho avuto modo di osservare all’interno del grande movimento contro le privatizzazioni dell’acqua ed energia in Sud Africa agli inizi del XXI secolo. Sulle Ande, sono rimasto colpito dalla pratica chiamata Minga, attraverso la quale comunità indigene si trovano insieme per affrontare in maniera conviviale la costruzione di case, per il lavori agricoli, o per la costruzione di scuole ed altri edifici per la collettività, per gestire un acquedotto autoprodotto. Come mi è stato spesso spiegato, in ogni Minga si lavora insieme, dai più anziani ai più giovani, uomini e donne, ognuno secondo le proprie capacità, in modo conviviale, e poi si banchetta e si fa festa, da dove ognuno trae ciò che ha bisogno. Nelle Minghe organizzate per fare qualcosa di specifico, si discutono anche altre questioni, che danno il via all’organizzazione di altre Minga e così via. Le Minga sono radicate anche nella nostra cultura occidentale, anche se noi le abbiamo dimenticate. Esse però si trovano ancora nelle economie solidali, nei piccoli centri, nel lavoro di riproduzione necessario per sostenere una lotta, o un centro sociale. Un altro esempio che mi ha colpito nel mio viaggio sulle Ande è stato in Ecuador, quando ho visitato Salinas, una cittadina a 3.500 metri di altezza, nella quale il 98 per cento dei suoi duemila abitanti e molti di più nel suo hinterland rurale fa parte di una cooperativa, e le cooperative sono poi in comunicazione tra loro. C’è una radio, una fabbrica e un laboratorio di tessuti, coltivazione e trasformazione di funghi, di cioccolato, di formaggi, una pensione, una pizzeria e molto altro tutto in cooperativa autogestita, con assemblee di soci che regolarmente discutono le questioni. La cosa più strabiliante è che cinquanta anni fa a Salinas c’era solo un padrone di una miniera di sale, e tutti lavoravano in condizioni miserabili per lui. Nel libro discuto anche degli aspetti problematici di questa esperienza, ma sicuramente si tratta di un caso notevole, soprattutto se si considera da dove sono partiti. Venendo vicino a noi in Italia, uno dei casi che mi ha più colpito è l’esperienza di Campi Aperti a Bologna, che fa parte della rete nazionale di Genuino Clandestino. Quello che mi ha colpito è un triplice sforzo: quello di andare oltre la certificazione biologica ottenuta mediate pagamento e quindi prona alla corruzione e a favorire i produttori più grandi. Con questa esperienza si vuole invece proporre una garanzia partecipata di genuinità dei prodotti, che mette insieme piccoli produttori e consumatori, li riunisce in assemblee per decidere i criteri di chi può partecipare, gli standard dei prodotti e i prezzi. In molti casi, i consumatori possono partecipare nella produzione dei prodotto, come il caso della cooperativa di Arvaia dentro Campi Aperti. Questa è un’esperienza che inizia un cammino di sostenibilità alimentare e sfuma i contorni di chi è produttore e chi è consumatore, una distinzione fondamentale del sistema capitalistico.
Possiamo sostenere che si tratta, prima di tutto, di esperienze in cui gruppi di persone comuni smettono di delegare e scelgono di ribellarsi, cioè non si rassegnano a interpretare la parte delle vittime, e creano un mondo nuovo tra le macerie di quello vecchio?
Assolutamente sì. Anche se non sempre c’è consapevolezza della rebellione nelle persone che iniziano questo percorso. Credo comunque che qualunque commons, inserito com’è in un ambiente entro il quale anche il capitale e lo stato neoliberale operano, prima o poi dovrà fare una scelta, tra la lotta per la loro sopravvivenza e sviluppo o la propria distruzione per mezzo della messa fuori legge, da qualche legge sulla salute pubblica, sulla libertà di scambio dei semi autoprodotti, sull’accesso a terre destinate alle grandi opere, sul divieto a prestare aiuto a migranti residenti sul territorio e così via. E la lotta acquista forza se è preceduta o da adito a un processo ricompositivo di tutti i commons.
Quali sono oggi gli obiettivi principali dei movimenti dei commons? E come tentano di raggiungerli?
Se si guarda bene, in ogni luogo dove c’è un movimento dei commons, c’è un aspetto della riproduzione a porre il terreno ricompositivo. Per esempio così come a Cochabamba fu l’acqua, più recentemente a Barcellona è stata la lotta della casa ad essere un primo passo di una piattaforma più ampia basata sui beni comuni. A Napoli è stata la lotta ambientale mentre nella val di Susa è stata la lotta contro il Tav. Con la lente di ingrandimento, si potrebbe continuare a vedere numerosi fenomeni più piccoli e meno conosciuti che coinvolgono soltanto luoghi particolari. Se si dovesse mettere insieme ciò che sembra emergere da un arcipelago dei commons ci sono tre principali assi entro i quali si modulano gli obiettivi e le aspirazioni dei commons: Riproduzione immediata della vita (cibo, casa, terra, care, salute, educazione e cultura, ambiente); Solidarietà e accoglienza; Giustizia sociale e redistribuzione della ricchezza sociale. Questi tre assi sono ovviamente tra loro collegati: c’è una relazione per esempio tra la questione ambientale (primo asse) e la questione della redistribuzione della ricchezza sociale (terzo asse), o tra la questione della riproduzione di immediata della vita e quella della solidarietà e accoglienza, sebbene questa relazione non è sempre lineare. Il modo nel quale generalmente si tenta di raggiungere questi obiettivi è quello appunto dell’impegno diretto, l’azione diretta. Non hai lavoro o sei stufo di correre la corsa competitiva? Mettiti insieme ad altri, cerca della terra e apri una piccola fattoria sostenibile. Mi va benissimo. In questo modo hai raggiunto alcuni degli obiettivi del primo asse, e puoi anche metterti in gioco nel secondo asse. Il mondo comunque gira indipendentemente da te, e hai intaccato solo minimamente le questioni del terzo asse. Inoltre come gruppo sei ricattabile se non fai esattamente come ti chiede l’Asl o il comune. Parlando con molti micro produttori, risulta sbagliata per esempio quella normativa che richiede a piccolissimi coltivatori e trasformatori alimentari di sottostare alle stesse norme di sicurezza e di igiene di grandi fabbriche. Questa normativa è infatti assurda per i piccoli produttori: perché nel mio micro laboratorio devo avere un bagno, quando il bagno si trova in casa mia nella porta accanto? O perché non posso portare torte fatte in casa alla festa della scuola, ma devo andarle a comprare e mostrare la ricevuta? Queste semplici illustrazioni vogliono dire che l’azione diretta dei singoli commons, è un obiettivo necessario, ma sicuramente non sufficiente per la trasformazione radicale di questo mondo. E qui la mia domanda diventa retorica: riusciranno i commons a creare un percorso ricompositivo e rivendicativo attorno a tutti e tre gli assi, a diventare forza politica, anche se non necessariamente partitica? Io credo che questa ricomposizione su questi tre assi sia necessaria non solo al fine di migliorare le condizioni di vita dei commons e in generale di tutti, ma anche di porre le basi per una questione ancora più grande, quella al centro dei dibattiti televisivi, e perfino incastonata nell’articolo uno della Costituzione, e difesa dalla sinistra e sindacati: la questione del lavoro. Se questa questione si legge dal punto di vista dei commons, cioè un punto di vista in cui la socialità che fa è anche in controllo dei modi del fare, delle sue ragioni e valori, diventa spontaneo chiederci: quale lavoro e per che cosa? Quali sono i ritmi, i salari, e cosa si produce e perché? Per arricchire chi, e a quali costi sociali e ambientali?
Perché i concetti di commons, commonwealth e commoning, nei loro aspetti teorici e soprattutto pratici, possono essere molto utili in questo momento storico?
Io concepisco i commons come sistemi sociali i cui elementi strutturali sono commonwealth – cioe- risorse materiali e immateriali messi in comune – e una pluralità di persone, di commoners, cioè una comunità, che insieme definisce le proprie relazioni al loro interno e nei confronti delle risorse in comune. Il fine ultimo del commons non è il profitto, ma la riproduzione di uno o più aspetti della vita. Questo è fatto attraverso il commoning, cioè il fare in comune (leggi anche Mettiamo in comune ), e attraverso il quale non si crea soltanto ricchezza (di cose, idee, culture, affetti e relazioni), ma anche decisioni, regole, confini dei commons e rapporti con altri commons. In quanto sistemi sociali, riconoscere i commons vuol dire riconoscere tre cose. In primo luogo, l’esistenza concreta di alternative, di altri modi di fare basati su altri valori che quelli del capitale. Il riconoscimento di questa esistenza concreta significa rompere con il pensiero unico, il cinismo e il disfattismo, e quindi aprire uno spiraglio di speranza. In secondo luogo, è importante riconoscere che ogni commons, per quanto piccola sia la sua estensione sociale, è una cellula entro la quale delle forze sociali sono mobilitate per obiettivi di riproduzione. Concepire i commons come forze sociali significa aprire un orizzonte entro i quali i commons possono aumentare la loro forza sociale, a porre strategicamente la questione della loro diffusione ed espansione.
In un articolo pubblicato su Comune, dal titolo Crisi, movimenti e commons, tra l’altro, scrivi: “I commons non possono essere ridotti agli stereotipi delle teorie dei commons e non devono adattarsi perfettamente a qualsiasi modello proposto da versioni romantiche o radicali di ciò che costituisce un sistema buono o socialmente giusto”. Perché cercare un modello sarebbe un errore?
Non c’è nessun errore nel cercare un modello, almeno dal punto di vista di una singola soggettività, un individuo, un collettivo, un commons. In questa dimensione noi spesso facilitiamo il nostro lavoro presente applicando un modello che abbiamo ideato e abbiamo preso da altre esperienze, anche se molto spesso noi adattiamo questo modello alle esigenze e condizioni (sociali, politiche o ambientali) del nostro contesto. E nel momento stesso nel quale noi adattiamo il modello esso è stato trasformato, molto spesso in modi che non erano stati anticipati. Inoltre, se guardiamo poi la cosa da un punto di vista evolutivo, di più ampia scala temporale, notiamo che questo adattamento è continuo, e che noi non possiamo anticipare oggi come sarà il futuro, al massimo possiamo delineare qualche scenario. È per questo che “i commons non possono essere ridotti agli stereotipi delle teorie dei commons e non devono adattarsi perfettamente a qualsiasi modello”, perché se facessimo così saremmo completamente rigidi di fronte alla complessità della trasformazione, e quindi costruiremmo ghetti invece di una forma sociale che possa diffondersi ed evolvere.
Perché la critica al dogma della crescita economica è parte importante della ricerca e delle lotte dei movimenti dei commons?
Perché la crescita economica è fondamentalmente tre cose: estrazione crescente, devastazione ambientale crescente, sfruttamento / povertà / alienazione / individualismo / solitudine / malessere crescente. Detto in altre parole, la ricerca della crescita economica continua ha bisogno di un’estrazione di minerali, di uso di terra, e di acque crescente. Questo porta necessariamente all’espropriazione crescente spesso violenta delle risorse delle comunità autorganizzate attorno al mondo, che usano queste risorse come bene comune. In questo senso, i commons sono minacciati dalla crescita. La devastazione ambientale è poi anche una conseguenza dell’estrazione crescente, così come della produzione al fine del profitto che minimizza anche i costi ambientali ed esternalizza sulle comunità e ai commons i costi in salute ed esperienza di vita. Infine, la crescita economica ci vede sempre più competere contro gli altri – la cui sussistenza non ci interessa. Ci vede competere quando cerchiamo lavoro, e quando lavoriamo, sia che siamo precari o abbiamo un lavoro fisso. La competizione si manifesta come una corsa continua per la semplice riproduzione delle nostre vite, ed è attraverso questa corsa che si manifesta in ricerca costante di aumento di produttività, taglio di costi, tagli alle spese sociali, bisogno crescente di denaro, debito, distruzione ambientale… che il nostro sfruttamento è possibile. La povertà si manifesta poi sia nel modo nella quale spendiamo le nostre vite attaccate a questo meccanismo, o attraverso l’accesso alle carenza quando siamo disoccupati, o quando ci viene espropriato tutto. La povertà si produce attraverso la continua riproduzione di gerarchie sociali, di chi ha sempre di più e di chi ha sempre meno legata al meccanismo economico. Ma è anche una corsa che ci aliena, ci separa ed estranea dagli altri, da quello che facciamo, dal nostro ambiente e dal senso che diamo alle nostre vite. Sentiamo questa forza a farci diventare sempre più individualistici, a pensare alla nostra, non a quella degli altri, sopravvivenza, a costruire un’armatura attorno a noi, che ci fa disprezzare gli altri, in primo luogo rom e migranti. Ed è una corsa che ci ammala, di stress, di cuore, di cancro, di ansie e paure.
Oggi più di ieri i movimenti dei commons sembrano dover affrontare alcuni ostacoli enormi: la moltiplicazione delle forme di repressione dall’alto, il raffinamento delle strategie di cooptazione dei commons da parte del capitale, infine, il rischio di scivolare nel comunitarismo identitario…
Le comunità indigene americane hanno affrontato ostacoli ancora più grandi nel corso dei secoli: tentativi di genocidi, assorbimento religioso, cooptazione e espropriazione in massa di terre. Sono ancora li a lottare, e in forme e contenuti sempre nuovi, portando insieme le varie identità e superandole. Tutto ciò è spesso fonte di ispirazione per tutti noi in occidente. Negli ultimi decenni essi sono stati capaci di ricomporre le loro diversità e identità in una maniera eccezionale, dando vita a grandi movimenti e cambiando anche la costituzione di alcuni paesi. Doppiamo riscoprire le nostre radici indigene – cioè di comunità che è radicata nella terra e nell’autoproduzione di cose, valori e culture – e poi creare ponti su questa base con altre comunità. Il capitale fa quello che deve fare, e non gli si può chiedere di essere diverso da quello che è. Siamo noi che possiamo e dobbiamo chiedere a noi stessi di operare in altri modi, diversi da quelli che ci vengono spesso imposti. Il rischio della repressione crescente e della cooptazione si affronta producendo altri modi di fare, di alleanze con commons diversi, e costruendo su di essi la nostra lotte e la capacità di resistere, ma anche attraverso la propositività di altri modelli e soluzioni, e attraverso una ricerca e denuncia continue, un atteggiamento di allerta. Il rischio del comunitarismo identitario lo si affronta così come si affrontano le divisioni all’interno di una comunità, attraverso la comunicazione, la sfida, la ricerca continua di una mediazione che il ben vivere li si possono solo creare insieme, con la collaborazione tra diverse comunità, non attraverso una lotta fratricida.
* Massimo De Angelis è docente di Economia politica e sviluppo presso la University of East London. Vive tra l’Appennino modenese e Londra.