Succede anche questo nell’Egitto dove da due mesi è tornato il nostro ambasciatore: che egli, insieme ai colleghi di Germania, Gran Bretagna, Canada e Olanda, abbia osato esprimere preoccupazione per la situazione di Ibrahim Metwally, avvocato in carcere da metà settembre, co-fondatore delle “Famiglie degli scomparsi in Egitto”, padre di un desaparecido, scomparso a sua volta per 48 ore dopo l’arresto e sottoposto a torture.
Un gesto, quello dei cinque ambasciatori, del tutto normale e che dovrebbe essere uno sviluppo ovvio della ripresa dei pieni rapporti diplomatici tra Italia ed Egitto. Un gesto che invece il Viceministro degli Esteri del Cairo, Ihab Nasr, ha definito come una vera e propria insolenza, “un’ingerenza evidente e inaccettabile negli affari interni egiziani”.
Ecco l’ennesimo segnale di arroganza da parte delle autorità egiziane: di diritti umani non si parla, sono “affari interni”. Una posizione su cui aveva peraltro concordato il presidente francese Macron nel corso del recente incontro con l’omologo egiziano al-Sisi: “Sui diritti umani non voglio ricevere lezioni, né voglio darne”.
Dai pesci in faccia lanciati ai cinque ambasciatori deriva la conferma di quanto già sappiamo da mesi: che al di là delle ipocrite dichiarazioni di facciata e di vuote promesse di collaborazione, per il Cairo sono un “affare interno” anche il sequestro, la sparizione, la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni.
Al Cairo si parla, e molto, di turismo, sicurezza, immigrazione. Di diritti umani no. Sarebbe onesto chiedersi, da parte delle autorità italiane, se a quell’arroganza non abbiano arrendevolmente contributo anche loro.