L’immagine di quei corpi chiusi nei sacchi è sempre la stessa. Si ripete nel tempo e ritorna uguale, ogni volta con un corredo di orrore ulteriore che rende tutto ancora più insopportabile. Questa volta il racconto è di corpi mangiati in parte dagli squali. Donne, uomini, bambini, rimasti in balia delle onde e dei predatori per chissà quanto tempo. Un gommone di cartone che si è disfatto senza lasciare un sostegno a gran parte del suo carico in una porzione di mare deserta, dove non c’è più nessuno così pronto a soccorrere. È arrivata la guardia costiera libica. Ha trovato quei corpi e li ha raccolti, ha trovato i vivi e li ha portati a bordo. Poi li ha riportati tutti indietro. Lo chiamano salvataggio ma probabilmente non è il termine giusto: hanno riportato indietro le persone in fuga, esattamente al punto di partenza, il luogo da dove stavano fuggendo, quel luogo fatto di stupri e torture come racconta chi riesce a scappare.
In questa stessa giornata un video racconta un altro orrore. È quello interno ad una camerata di un centro di detenzione, da qualche parte in Libia. C’è una grande camera con alcuni letti dove riposano corpi magri e bianchi, intorno altri corpi sdraiati a terra. Sono ovunque e lo spazio non basta a nessuno. Un uomo riprende tutto e chiede aiuto al re del Marocco, gli chiede di fare qualcosa per salvare quelle vite, alla deriva da chissà quanto tempo in quella porzione di terra deserta che li tiene prigionieri e schiavi e dove nessuno vuole andare a soccorrerli.
È un percorso che gira in tondo, lo stesso che ruota intorno a tutti i confini di questo nostro continente. Si ripete nei Balcani intorno ai muri di filo spinato dove non ci sono squali ma i cani delle guardie di confine e la ruota gira più volte intorno allo stesso panorama per chi cerca di passare: si fugge in una direzione, si viene catturati, morsi dai cani o dagli squali e si torna al punto di partenza. E ogni tanto qualcuno muore, come i trenta circa di oggi tra cui 3 bambini o come la piccola bambina afghana che aveva 5 anni ed è stata travolta da un treno mentre camminava sulla ferrovia verso la Croazia.
Succede lo stesso ormai da anni e ogni tanto si scopre qualcosa di orribile che va oltre l’orribile conosciuto. Come quell’asta che mette in vendita esseri umani che un video della Cnn ha mostrato al mondo. Succede in Libia dove l’Italia ha deciso e scelto di fermare i flussi migratori facendo oscuri accordi milionari che però non riescono davvero a fermare nessuno.
Da Edirne, a Zuara, a Melilla la dinamica è sempre la stessa, la ruota gira sempre nella stessa direzione. La gente in fuga attraversa il confine e viene respinta, poi attraversa di nuovo finché non riesce a passare o finché non muore. Intanto i trafficanti si fanno ricchi, la stessa persona li paga due, tre, quattro, dieci volte per lo stesso passaggio al confine. Sui Balcani alcuni hanno provato anche oltre venti volte a passare e sono stati respinti, il Mediterraneo è più letale, ma ogni tentativo costa dieci volte di più. E nel mezzo c’è l’orrore degli stupri, delle torture, della benzina buttata addosso, delle scosse elettriche, delle urla nel telefono per convincere i familiari a pagare il riscatto. Succede in Libia come in Bulgaria, ai confini del nostro mondo il sequestro è ancora un’attività redditizia.
Nel giorno del naufragio, degli squali e del video che ha mostrato l’orrore dei centri di detenzione è successo anche che il ministro dell’Interno ha detto che “se vogliamo salvare vite umane, dobbiamo sconfiggere il traffico illegale di esseri umani”, ha detto sorprendentemente che “la sfida si vince costruendo corridoi umanitari”. Parole condivisibili e apparentemente banali, ma che faticano a trovare riscontro con quello che succede nel mondo reale dove le partenze non si sono fermate; gli interlocutori scelti si sono rivelati inaffidabili come molti avevano previsto fin dall’inizio; nel mare sono rimaste poche navi a fare ricerca e soccorso; della costruzione di corridoi umanitari non c’è alcun segnale. Il Mediterraneo è un buco nero come prima del naufragio di Lampedusa nel 2013, come prima dell’operazione Mare nostrum. Le navi ong sono state massacrate da una feroce campagna denigratoria e diffamatoria nata sotto la spinta propulsiva del codice di condotta imposto da Minniti.
Nel Mediterraneo c’è la guardia costiera libica pagata da noi e addestrata in Italia. È la stessa che il 6 novembre ha dato vita ad un pestaggio in mare costato la vita a circa 50 migranti ripreso integralmente da una telecamera della Ong Sea Watch. Nonostante questo, ultimo di una serie di episodi di violenza, abbiamo acquisito la strana abitudine ad utilizzare la parola “salvataggio” associata alle operazioni della guardia costiera libica. Si ripete nei titoli in queste ore: 30 morti e 200 salvati. Intercettati da una motovedetta libica che li ha riportati indietro, al punto di partenza dove ricomincia il giro nell’orrore dei centri di detenzione, della schiavitù, degli stupri. “Salvati dal Mediterraneo”, come se davvero il mare fosse il problema.