“Non puoi comprare solo le fabbriche ignorando le responsabilità” risponde alla DIRE Rachna Dhingra, la coordinatrice di International Campaign for Justice in Bhopal.
Dall’altra parte dei laghi che tagliano la città, superato il ponte in direzione nord, pozze avvelenate sotto torrette inghiottite dai rampicanti e tubature rose dalla ruggine: sono gli scheletri della fabbrica di pesticidi di Union Carbide, la multinazionale nordamericana responsabile di uno dei disastri industriali più gravi della storia.
Poco dopo la mezzanotte, il 3 dicembre 1984, i sistemi di sicurezza non funzionarono e una nube tossica di 42 tonnellate di isocianato di metile uccise oltre 5mila persone. Nei mesi e negli anni successivi il numero dei morti a causa di malattie e infermità dovute ai gas superò i 22mila.
Nelle falde acquifere finirono concentrazioni di pesticidi superiori di 561 volte rispetto ai livelli di sicurezza: triclorobenzene e mercurio, piombo e diclorometano, carbaryl e arsenico, anche nel latte delle madri. E adesso, lo ha denunciato anche l’Onu, c’è il rischio che la speranza di ottenere giustizia sia seppellita una volta per tutte.
Dow Chemicals, la multinazionale che aveva acquisito Union Carbide nel 2001, ha completato nel settembre scorso la fusione con il colosso DuPont. Un affare da 130 miliardi di dollari che, forse nel rispetto delle logiche del capitalismo globale, potrebbe tagliar fuori ancora una volta i diritti delle vittime.
“Una fusione o un’acquisizione non possono cancellare le responsabilità di chi ha commesso reati” sottolinea Dhingra. Convinta che, come nel caso del primo passaggio di proprietà, anche il nuovo “merger” non cambi le carte in tavola: da una parte ci sono le multinazionali e da un’altra le vittime, con i tumori, l’emergenza aborti e le malformazioni alla nascita, oggi dieci volte più frequenti rispetto alla media nazionale.
Di mezzo ci sarebbe il governo dell’India, ma solo in teoria. Per capirlo bastano i numeri del patteggiamento del 1989, quando Delhi concordò con Union Carbide risarcimenti per appena 470 milioni di dollari, un settimo di quanto chiesto in un tribunale americano.
“Un’intesa scellerata” sottolinea Dhingra: “Chi era alle prese con malattie e infermità permanenti ottenne 500 dollari, cioè appena cinque centesimi al giorno; chi aveva perso un figlio, una moglie o un marito non ne ricevette più di duemila”. Cifre sballate, come ricostruisce ‘A Prayer for Rain‘, film hollywoodiano con Martin Sheen nei panni di un dirigente di Union Carbide. Ed errori da attribuire, però, anche alla politica.
“Il governo dell’India non ha adottato alcun tipo di provvedimento perché le multinazionali rispondano sul piano ambientale, civile e penale” spiega Dhingra: “Non si vuole rovinare il clima per gli investimenti stranieri”.
Di “ostacoli” vecchi e nuovi parla anche Baskut Tuncak, relatore speciale delle Nazioni Unite per le sostanze e i rifiuti tossici: “La fusione”, ha detto al quotidiano inglese ‘Independent’, “aggiunge difficoltà giuridiche ulteriori perché le vittime ottengano un qualche tipo di giustizia o risarcimento valido per un disastro avvenuto ormai oltre 30 anni fa, che poteva essere evitato”.
E allora, cosa fare? A Bhopal rispondono che, nonostante tutto, bisogna andare avanti. “Diamo appuntamento in centro città, il 2 e 3 dicembre, per il 33° anniversario della strage” annuncia Dhingra: “Ci saranno cortei e veglie nella notte, per ricordare i morti e battersi per i vivi”.
Dal nostro inviato in India Vincenzo Giardina