Da ieri rimbalza sui media italiani la notizia che il 9 ottobre la procura di Roma ha trasmesso alle autorità giudiziarie britanniche un ordine di rogatoria per poter interrogare formalmente la tutor di Giulio Regeni a Cambridge, Maha Mahfouz Abdelrahman.
In questi giorni Antonio Di Bartolomeo, della sede Rai del Friuli Venezia Giulia, in uno scambio di mail con l’università di Cambridge ha ricevuto garanzie sulla disponibilità della docente a rispondere alle domande della procura di Roma quando vi sarà un atto formale.
L’atto formale, ossia la rogatoria, ora c’è e dunque quelle risposte dovranno arrivare.
Che le indagini della procura di Roma dovessero procedere a tutto campo, coinvolgendo ogni soggetto potenzialmente utile alle indagini, era nelle intenzioni iniziali e negli auspici di tutti. Da più parti, e lo avevano fatto gli stessi genitori di Giulio, si era sollecitata la piena collaborazione delle persone che, per conto dell’Università di Cambridge, erano state in rapporti col nostro ricercatore.
Bene, dunque.
Male, come era prevedibile, la strumentalizzazione di questa parte delle indagini. Ogni volta che si tira in ballo Cambridge, c’è chi al Cairo e a Roma tira un sospiro di sollievo. Come se una rogatoria internazionale diretta in Gran Bretagna potesse alleviare le responsabilità criminali delle autorità egiziane. Come se questo sviluppo potesse rafforzare le motivazioni con cui il governo italiano ha rinviato l’ambasciatore nella capitale egiziana.
Ribadiamolo, perché pare che oggi – visto anche il solerte tweet del primo ministro italiano dell’epoca – ce ne sia davvero bisogno: coloro che hanno sequestrato, torturato e ucciso Giulio stanno al Cairo. Così come stanno al Cairo coloro che hanno coperto, depistato (tra l’altro uccidendo cinque innocenti) e ingannato. Stanno al Cairo coloro che non forniscono la verità, stanno a Roma coloro che la cercano con sempre meno convinzione.