È una vera sciagura che le decisioni politiche ed economiche che maggiormente influenzano la nostra vita, siano così incrostate di tecnicismi da indurre i cittadini a disinteressarsene. Una di queste è il fiscal compact, un tema che già dal titolo invita alla fuga. Ma la sua attuazione è così gravida di conseguenze che sarebbe un suicidio non occuparsene.
Spesso le cose sono complicate perché si presentano come matasse intricate che più provi a più dipanarle più si annodano. Ma se riusciamo a trovare il capo e cominciamo a srotolarle, allora tutto si fa più chiaro. Rispetto al fiscal compact cominciamo col dire che si tratta di un accordo fra stati europei siglato nel 2012. Traducibile come “patto di bilancio” ha per oggetto il contenimento del debito pubblico. In particolare prevede due impegni da parte di ogni stato firmatario: il pareggio di bilancio, per non fare altro debito, e l’alleggerimento di quello accumulato attraverso un piano di rientro ventennale per riportarlo al di sotto del 60% del prodotto interno lordo. Oggi si torna a parlare di quell’accordo perché si vuole cambiare la sua natura giuridica. Essendo nato più con lo scopo di rassicurare il mondo degli affari che quello di essere messo immediatamente in pratica, il suo grado di ufficialità può essere paragonato a quello di una scrittura privata che non produce effetti sanzionatori in caso di inadempienza. Nell’accordo, però, c’è una clausola che prevede di trasformarlo, entro cinque anni, in un vero e proprio trattato regolamentato dalle norme dell’Unione Europea. Un cambiamento di stato giuridico che lo farebbe passare da impegno generico a regola ferrea perché i trattati europei sono supervisionati dalla Commissione Europea che fa scattare sanzioni in caso di inadempienza. I cinque anni stanno per scadere e prevedendo che qualche stato (esempio Germania) possa chiedere il cambio di stato giuridico, si è acceso un dibattito su cosa sia meglio fare: assistere passivamente all’evoluzione degli eventi o cercare di impedire ulteriori passaggi?
Il fronte dei progressisti non è unito. Paradossalmente alcuni difendono il fiscal compact in nome delle generazioni future. L’argomentazione è che ogni nuovo debito di oggi si trasforma in nuovi pesi domani, non tanto per il capitale da restituire, quanto per gli interessi da pagare che rappresentano una vera e propria emorragia collettiva a vantaggio dell’arricchimento di pochi. Di qui la difesa del pareggio di bilancio. Ma il rischio è che la difesa dei figli si trasformi in un colpo mortale dei padri. Già oggi, che eppure accettiamo di sforare il bilancio, facciamo macelleria sociale per raggranellare i soldi da destinare agli interessi. Si calcola che dal 1992 ad oggi abbiamo dirottato 750 miliardi di gettito fiscale dai servizi a vantaggio dei cittadini al pagamento degli interessi, tuttavia senza riuscire mai a coprirli nella loro interezza. Per coprire l’intera spesa, abbiamo aperto tutti gli anni nuovo debito, quando di 30, quando di 50 o di 60 miliardi di euro. Se dunque volessimo legarci indissolubilmente al pareggio di bilancio, il taglio ai servizi a vantaggio dei cittadini sarebbe molto più alto. Per non parlare del progetto di riportare il cumulo del debito pubblico sotto al 60% del Pil in venti anni. Oggi il nostro debito pubblico ammonta a 2200 miliardi pari al 135% del Pil. Riportarlo al di sotto del 60% significherebbe dimezzarlo in venti anni. In altre parole dovremmo accantonare ogni anno 50 miliardi che andrebbero ad aggiungersi ai 60-80 miliardi di interessi per una cifra superiore ai 100 miliardi all’anno da destinare al servizio del debito. Neanche un paese come la Germania potrebbe farcela!
Molti dicono che eliminando la corruzione e le inefficienze, si potrebbero ottenere risparmi utili a ridurre il nostro debito senza colpire necessariamente le spese sociali. In teoria tutto è possibile, in realtà è più semplice e veloce risparmiare decretando il taglio degli assegni ai portatori di handicap che correggendo i malcostumi della macchina burocratica. Per cui non c’è niente di più probabile che in nome del debito si continui a tagliare la previdenza sociale e i servizi pubblici. In ogni caso se proprio volessimo sondare tutte le possibilità, ci sarebbe anche un altro modo per raggiungere il pareggio di bilancio senza toccare le spese sociali: è il rifiuto di pagare gli interessi. Chi l’ha detto che il peso del debito debba essere portato solo dai cittadini e non anche dai creditori? In fondo il tasso di interesse è preteso in nome del rischio di poter perdere il capitale. Allora coerenza vuole che se il debitore non ce la fa, il creditore accetti di fare buon viso a cattiva sorte. Fra privati è un’abitudine consolidata negoziare la riduzione del debito e degli interessi, quando il debitore è in difficoltà. Non si vede perché ciò che è consentito ai privati debba essere negato al pubblico.
Se l’obiettivo fosse il pareggio di bilancio tramite la decurtazione degli interessi, la proposta potrebbe farsi interessante. Ma con la classe politica che ci troviamo, dotarci di una simile regola sarebbe come consegnare un coltello al macellaio: speri che ci tagli il pane, in realtà ci sgozza gli agnelli. E qui arriviamo al cuore del problema: per chi e per che cosa è stato pensato il fiscal compact? Per trovare una risposta dovremmo esaminare le scelte compiute in Europa, e più in generale in Occidente, negli ultimi quaranta anni. Dal 1980 l’ala socialdemocratica, quella che cercava di piegare il capitalismo alle esigenze sociali, sta cedendo terreno al neoliberismo, che invece vuole il trionfo assoluto delle forze di mercato e della logica capitalista. Un caposaldo del neoliberismo è l’annientamento dello stato, come livellatore di ricchezza, come erogatore di servizi, come guida dell’economia. In ambito fiscale si è assistito all’esplodere dei paradisi fiscali e alla riduzione delle tasse ai ricchi con conseguente aumento ai ceti più poveri. Nell’ambito dei servizi la parola d’ordine è stato privatizzazione, per cui acqua, trasporti, telefoni, sanità da sempre affidati al pubblico, sono stati trasferiti al mercato. E volendo sbarazzarsi definitivamente dello stato come soggetto che guida l’economia, gli è stata tolta sovranità monetaria, affinché non possa più utilizzare la spesa pubblica come volano occupazionale e come timoniere della produzione. Perciò, quando negli anni ottanta si è cominciato a ragionare attorno alla costruzione della nuova Unione Europea e all’introduzione di una moneta comune, il modello preso a riferimento è stato quello neoliberista che eleva il mercato a sovrano e degrada gli stati a suoi cortigiani. A soggetti, cioè, che da un punto di vista legislativo si limitano alla funzione di scrivani che sotto dettatura scrivono leggi funzionali al mercato e alle imprese, mentre da un punto di vista sono mucche da mungere. Dopo averli spogliati di ogni forma di autonomia monetaria, la raccomandazione agli stati non è stata quella di gestire le proprie finanze nell’interesse dei cittadini, ma delle banche. E poiché le banche vivono di prestiti, la richiesta ai governi non è stata di astenersi dal fare debiti, ma di farne in maniera equilibrata in modo da non compromettere mai la propria reputazione di debitori affidabili. Non a caso il trattato di Maastricht decretò che il deficit pubblico non deve oltrepassare il 3% mentre il debito complessivo deve stare al di sotto del 60% del Pil. Poi venne la crisi bancaria del 2009 e tutti gli stati vennero invitati a caricarsi di debiti per salvare le banche. L’indebitamento complessivo dei paesi dell’euro zona balzò dal 60% nel 2006 all’83% del Pil nel 2010. Quello italiano passò addirittura al 120% e quello greco al 140% del Pil. Ormai persa la reputazione di debitori affidabili subentrò la paura che gli investitori voltassero le spalle all’Europa, o che la ponessero addirittura sotto attacco speculativo facendo traballare l’euro. Nel 2011 i timori si fecero realtà: un attacco speculativo contro i titoli di stato italiani fece crollare il loro valore, obbligando il governo italiano a pagare tassi di interesse esorbitanti sui titoli di nuova emissione. I mercati andavano tranquillizzati, andavano rassicurati che i loro soldi non sarebbero andati perduti, l’unico modo per farlo era l’annuncio del pareggio di bilancio. La promessa, cioè, di mantenere le spese dentro le entrate in modo da non fare altro debito ed evitare di sovraccaricarsi così tanto da correre il rischio della bancarotta.
A ciò servì il fiscal compact che perciò si può ritenere un documento politico prima ancora che finanziario. È stato l’atto attraverso il quale gli stati d’Europa hanno confermato totale sottomissione ai mercati ed hanno dichiarato di porsi come obiettivo supremo la tutela dei creditori. Ed è per questo suo significato politico che il fiscal compact va ostacolato. Dobbiamo impedirgli di assumere più valore giuridico di quello che ha oggi, per non fornire alla Commissione Europea un altro strumento di controllo sui parlamenti nazionali in chiave mercantilista. Il fiscal compact va ostacolato come primo passo di un lungo percorso, sicuramente non facile, che dovremo mettere in atto per invertire il senso di marcia dell’impostazione ideologica che oggi domina il mondo. Un nuovo percorso per affermare che l’interesse collettivo non può mai essere secondo a nessuno. Che il potere pubblico sta al di sopra di quello di mercato. Che i governi debbono tornare a poter gestire i propri bilanci in totale autonomia perché la sovranità appartiene al popolo. Che i governi debbono tornare a disporre di sovranità monetaria per poter guidare l’economia nell’ottica del bene comune. In conclusione sarebbe un modo per ridare vigore all’articolo 41 della nostra Costituzione che senza mezzi termini non consente all’iniziativa privata di “svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.” È tempo di ritrovare le nostre radici sociali e repubblicane.