La chiesa cattolica Mater Dolorosa, nel distretto Ilkadim della città di Samsun, è stata riaperta al culto dopo dieci anni. La causa di questa novità sono gli immigrati iracheni cattolici presenti in città. Si tratta di una novità tanto interessante quanto difficile.
La chiesa, che è tra gli edifici storici più importanti di Samsun, ha circa 200 anni. Nel 1876 il Sultano Murat V, considerato il numero di cattolici presenti nella città di Samsun, diede uno speciale permesso per costruire una chiesa cattolica. Il Sultano desiderava che rappresentasse il simbolo della convivenza tra musulmani e non musulmani, ed inviò l’atto di proprietà due anni dopo l’inizio dei lavori per la costruzione della chiesa, che furono completati nel 1885.
Dopo un periodo di chiusura durato svariati anni, la chiesa è stata riaperta, ed il fattore più importante per la riapertura è stato il fenomeno migratorio, da cui, per diversi punti di vista, la Turchia è stata presa alla sprovvista. Samsun, come altre città della Turchia, ospita immigrati non solo siriani, ma anche iracheni, arrivati in questa città con l’idea di farsi una nuova vita. Secondo l’Ufficio per l’Immigrazione provinciale, a Samsun vive un totale di 16500 immigrati con vari status politici. Di questi, 6000 sono siriani e 9000 iracheni. I rimanenti 1500 appartengono ad altre nazionalità.
Gli iracheni non sono tutti musulmani. A Samsun si è creata una piccola comunità di cattolici caldei iracheni, ed è stato per loro che la chiesa, dopo tanti anni, ha riaperto le porte.
Gli argentini padre Marcelo Cisneros e padre Adrian E. Loza sono arrivati a Samsun 4 mesi fa, dopo aver lavorato insieme per un periodo a Istanbul. Con l’aiuto della nuova comunità di fedeli iracheni hanno sistemato i locali ed il cortile della chiesa.
Padre Marcelo ha deciso di tenere la chiesa aperta ogni giorno dalle 11 alle 14 in seguito alla curiosità e alle richieste della popolazione locale. La domenica prima della messa il cortile della chiesa era festoso: i bambini giocavano a rincorrersi, gli adulti conversavano bevendo del tè.
La messa inizia con canti in arabo, e continua con preghiere in inglese e turco, tradotte in arabo per gli iracheni da un appartenente alla comunità. Al termine della messa, durata circa un’ora, i fedeli puliscono e riordinano i locali della chiesa. Al termine della messa ho avuto l’occasione di chiacchierare con qualcuno della comunità caldea.
J.S. è arrivato a Samsun con sua madre circa tre anni e mezzo fa. Dopo aver finito le superiori avrebbe voluto iscriversi all’università a Baghdad ma data la mancanza di sicurezza, lui e sua madre sono migrati a Samsun, acquisendo lo status di ‘rifugiati condizionali’. Qui con un amico hanno iniziato a fare gli imbianchini. J.S. ha riassunto così il motivo del loro arrivo:
“Dopo che l’America ha invaso l’Iraq, tutto è divenuto più difficile. Ero un bambino, e non ricordo molto bene il periodo pre invasione, ma siamo tutti cresciuti sentendo che in quei tempi si stava meglio. Visto che i governi post-invasione non riuscivano a garantire la sicurezza, i cristiani hanno iniziato a subire attacchi da diversi gruppi islamici radicali e da gruppi mafiosi che si sono formati in seguito. Questa situazione continua tutt’ora. I cristiani vengono continuamente molestati, le loro case e proprietà vengono requisite, vengono persino ammazzati. I benestanti riescono a salvarsi scappando, gli altri devono sopportare e subire questa tortura. Le minacce ricevute e la mancanza di sicurezza hanno reso per me impossibile frequentare l’università. In Turchia siamo al sicuro, finora non abbiamo vissuto nessuna esperienza negativa. Almeno qui, nel caso in cui in futuro dovessimo subire maltrattamenti, esistono delle istituzioni competenti a cui poter denunciare l’accaduto”.
J.S. puntualizza che non vuole restare in Turchia. Perché pensa che è un paese difficile, e non crede di avere un futuro qui. La maggior parte dei suoi conoscenti non desidera rimanere e da quanto dice quasi tutti hanno fatto domanda all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e sono in attesa di risposta. In genere le mete preferite sono gli Stati Uniti, il Canada o l’Australia.
J.S. mi ha spiegato così il motivo per cui l’Unione Europea non viene considerata:
“Prima di tutto, l’Europa non è il paradiso, anche lì ci sono molti problemi. In secondo luogo, la maggior parte dei nostri fratelli e familiari si trovano in quegli stati. Dopodiché, imparare l’inglese è più facile che imparare un’altra lingua europea. Per questo motivo io e molti altri preferiamo quegli stati anglofoni per continuare gli studi o per trovare lavoro in poco tempo”.
M.L. e A.K., entrambe di 26 anni, parlano un po’ di turco e se in difficoltà vengono aiutate da J.S. Vivono a Samsun da 2 anni, e come gli altri aspettano risposta dall’UNHCR. Diversamente da J.S., sono arrivate dal nord dell’Iraq insieme alle loro famiglie in fuga dall’ISIS. Non hanno lavoro. Più che parlarmi del loro passato, mi hanno raccontato della loro vita a Samsun. Dicono che sebbene si sentano al sicuro, preferiscono nascondere la loro identità religiosa. M.L. spiega così il motivo:
“Non vogliamo dire di essere cristiane perché quando lo facciamo la gente ci chiede sempre come mai non scegliamo l’Islam. Scherzando oppure seriamente ci dicono cose tipo ‘Devi essere musulmana’, oppure ‘Convertitevi all’Islam’. Per questo motivo ormai ci siamo stancate, e non sveliamo la nostra identità cristiana”.
Anche J.S. soffre lo stesso trattamento. Proprio mentre parlavamo di questo, H.M. si è unito alla discussione. Vive a Ordu ed è venuto a Samsun per la messa. Dice che la gente di Samsun è molto più tollerante di quella di Ordu ed aggiunge:
“A Ordu abbiamo costantemente problemi con il vicinato. Anche se non facciamo rumore, e addirittura se facciamo particolare attenzione a non farlo, praticamente ogni giorno i vicini ci mandano la polizia. Anch’io ho vissuto le cose raccontate da M.L. Siamo vittime di pregiudizi per il fatto di essere stranieri, e quindi non vogliamo dire che siamo cristiani. Nonostante queste difficoltà, vorrei precisare che il mio migliore amico è turco e sa ogni cosa di me, siamo come fratelli, è sempre al mio fianco”.
Ho voluto chiedere a riguardo dei rapporti tra migranti musulmani iracheni e siriani, A.K. ha risposto così:
“In realtà con i siriani non abbiamo rapporti. La loro situazione è più difficile, vivono in maggiori difficoltà economiche. Ovviamente conosciamo musulmani arrivati dall’Iraq, ma ci salutiamo e chiediamo come va, niente di più. Ad essere sinceri qui ognuno ha il suo mondo a parte. Noi di solito abbiamo rapporti di vicinanza soltanto con le persone che vedi qui”.
Alla fine abbiamo iniziato a parlare dell’Iraq. Ho chiesto cosa pensassero del referendum e sono tutti d’accordo sul fatto che l’unità della nazione è di vitale importanza per tutti i popoli che ci vivono. D’altra parte li preoccupa il fatto che dopo il referendum il governo centrale abbia voluto prendere il controllo della zona del Kurdistan, perché i cristiani che vivevano nella parte meridionale dell’Iraq, visto che il governo centrale faceva finta di non accorgersi degli attacchi e delle molestie dirette nei loro confronti, hanno deciso di migrare a nord nelle zone curde in cerca di una vita più tranquilla. Per questo motivo pensano che sia preoccupante per i cristiani della zona il fatto che in questi giorni il governo centrale stia iniziando a riprendersi anche l’Iraq settentrionale. In sostanza credono nell’unità della nazione e che tutti i popoli debbano vivere insieme, d’altra parte non si fidano del governo centrale.
Per le persone che ho conosciuto qui, Samsun, Ordu o la Turchia in genere rappresentano soltanto un punto di passaggio. Non vogliono fermarsi qui e allo stesso tempo non hanno idea di quanto dovranno ancora aspettare. Per la comunità dei cristiani iracheni, in questo periodo pieno di incertezza, la chiesa cattolica Mater Dolorosa rappresenta – come ogni altro luogo di culto – anche un punto di ritrovo. L’unica differenza è che oltre a socializzare, i fedeli passano la giornata senza essere costretti a nascondere la loro identità religiosa, o di ‘rifugiati’ e ‘stranieri’. A messa finita i bambini continuano a giocare nel cortile adiacente, qualcuno si isola e ascolta musica dagli auricolari, qualcun altro continua i lavori per risistemare il giardino. Donne e giovani chiacchierano tra di loro. Padre Marcelo e padre Adrian si si prendono cura di ognuno dei presenti. Qui le persone, per quanto poco, si sentono a casa.
Reportage: Nukhet Akgun Bordignon
Traduzione: Mattia Bordignon