La resistenza pacifica e la nonviolenza attiva nei confronti della violenza militare spagnola che assaltava i seggi
La redazione di Pressenza ha contattato telefonicamente Cristiano Sabino, FIU (Fronte Indipendentista Unidu) e rappresentante del Comitadu Sardu pro s’indipendentzia de sa Catalunya per chiedergli come ha vissuto i giorni del referendum, giorni in cui si trovava a Barcellona, presidiando uno dei 200 seggi sparsi per la città.
Sei andato in Catalogna in qualità di osservatore nazionale?
«Gli indipendentisti Sardi formavano, nei giorni scorsi una delle delegazioni più numerose dopo quella dei Baschi, i quali avevano portato decine e decine di pullman. Molti indipendentisti sardi si sono fatti accreditare a livello istituzionale come Osservatori internazionali e hanno svolto un’importante attività, per cui hanno partecipato ad incontri e dibattiti. Sono stati convocati dalla Generalitat: i sardi hanno risposto molto bene alla chiamata Catalana, dato che sono accorsi un po’ tutti i movimenti e i partiti di ispirazione non solo indipendentista, ma anche sovranista e sardista.
Noi però del Comitato Sardo pro s’indipendentzia de sa Catalunya non abbiamo partecipato come Osservatori internazionali: non abbiamo optato per questa scelta, pur avendo rapporti con la Generalitat, avendo organizzato incontri col rappresentante istituzionale Joan Adell qui in Sardegna, dato che lo Stato Catalano ha una delegazione ad Alghero perché città sarda ma di cultura catalana.
Avremmo potuto optare per la scelta sopracitata ma abbiamo ritenuto di non sfruttare questa opportunità e di utilizzare i contatti che avevamo per poter entrare direttamente in contatto con l’organizzazione della difesa dei seggi elettorali (ad esempio nelle scuole). È stata una scelta vincente e molto positiva considerato che, al momento dell’arrivo, i delegati accreditati come Osservatori internazionali sono andati negli alberghi, nei B&B, noi invece – sacco a pelo in spalla – siamo andati nei seggi occupati, scatenando molta curiosità da parte dei media, dato che «dalla prima notte i sardi, assieme ai catalani, occupavano i collegi elettorali». Siamo entrati, poi, nella vita ‘social’ dei gruppi che reggevano l’organizzazione dei collegi elettorali catalani: avevamo istantaneamente accesso a informazioni come la mancanza di personale in determinati seggi, tant’è che ad un certo punto, dei compagni catalani del collegio del Pit-Roig, dove eravamo noi, ci avevano chiesto di andare ad un altro seggio perché mancava gente. Insomma, vivevo e vivevamo quei giorni come se stessimo all’interno dell’organizzazione, resistenti allo stesso livello. Questa cosa gli altri delegati internazionali non l’hanno vissuta: ci siamo persi delle conferenze stampa, ma ci abbiamo guadagnato in esperienza diretta, toccando con mano quel che stava accadendo all’interno, costruendo dei rapporti umani profondissimi in pochissime ore, dato che eravamo sul loro stesso piano e non ci vedevano come ‘delegati di altri paesi’.»
Ci hai parlato di seggi, abbiamo visto la repressione, e come Pressenza abbiamo condannato l’uso della violenza massiccia da parte della Guardia Civil: come si erano organizzati gli indipendentisti catalani per fare fronte alla repressione della polizia spagnola?
«Noi siamo stati nel collegio del Pit-Roig, come detto prima, che è una scuola primaria del quartiere Guinardò, uno dei tanti seggi sparsi per Barcellona (calcolando che ce n’erano più di 200). Erano, sostanzialmente, piccoli soviet: vere e proprie assemblee di persone. Di notte non c’erano mai meno di 40 persone a presidiare i seggi, calcolando – poi – che tutti quelli che non rimanevano al presidio fornivano utile supporto il giorno successivo, portando la colazione e sostentandoli con tutti i modi possibili (cucinando, portando sacchi a pelo etc).
Le scuole, in ogni caso, sono rimaste aperte grazie all’istituzione di un programma ludico-didattico: la scuola in cui eravamo (e in cui ero personalmente) vedeva bambini che giocavano e coloravano mentre eravamo lì a presidiare i seggi, un po’ come avveniva al liceo, dove quando si occupava si organizzava una ‘contro-didattica’. Si era istituito, in sostanza, un programma con tutte le attività della giornata, assemblee e discussioni, sia di notte che di giorno, a parte le poche ore di sonno, ovvero dalle 2 alle 6 del mattino. Anzi, anche meno, dato che facevamo i turni per restare a guardia dei seggi. In totale avrò dormito massimo due ore a notte, per tutta la mia permanenza a Barcellona.
Per quanto riguarda la polizia, in realtà molti aspettavano i Mossos e quando venivano a identificare qualcuno, la risposta che veniva fornita loro era che “non c’erano responsabili” all’interno del seggio. Dunque, dato che la procedura era l’identificazione del singolo responsabile, o di tutti i presenti, spesso non prendevano gli estremi di nessuno e se ne andavano facendo spallucce, anche perché essendo polizia catalana non potevano mettersi contro la loro stessa gente. Quando però è sbarcata la polizia spagnola, tra l’altro vergognosamente da navi italiane “Moby Lines” e “Grandi navi veloci” prese in affitto ad hoc, e hanno cominciato ad assaltare militarmente i seggi, ci siamo organizzati con la risposta pacifica, nonviolenta, attiva. Ci si sedeva per terra, ci si ‘incordonava’, e ci si faceva portare via, anche se la polizia era feroce, spietata (spesso anche ‘drogata’ con sostanze psicotrope esaltanti) e politicizzata, dato che nei giorni precedenti girava per la città con la bandiera spagnola al seguito: immaginatevi una polizia che va in giro come gli ultras di una squadra di calcio.
Una forza di polizia faziosa che non doveva ripristinare la legalità ma difendere il principio politico dell’unità sacrale del Regno di Spagna. Inizialmente la Guardia Civil ha iniziato a portare via la gente con calci e pugni, poi ha iniziato anche a usare manganelli, spray al peperoncino, proiettili di gomma (illegali in Catalogna, tra l’altro).
Stavano per arrivare anche da noi, dato che avevano sgomberato due sezioni proprio vicine alla nostra, ed eravamo tutti compatti nella difesa del seggio. Tuttavia abbiamo consigliato ai più anziani e ai bambini di andare via, dato che non potevamo obbligare nessuno a fare resistenza passiva. Chi voleva andarsene non era criminalizzato, assolutamente. Un ragazzo della CUP, giovanissimo, ‘megafonava’ e dava informazioni sul da farsi molto rapidamente: in sostanza, non dovevamo rispondere alle provocazioni prendendoci le manganellate e resistendo in modo nonviolento.
Nonviolento ma non meno intenso però, perché – ripeto – solo al mio seggio c’erano più di 500 persone che si occupavano dell’organizzazione, più la fila chilometrica di gente in attesa di votare. Provate ad immaginarvi la scena: la mia scuola era in una piccola strada a senso unico e a destra e a sinistra del luogo in cui era si erano formate due file di votanti, più un terzo raggruppamento di fronte la scuola. Questo terzo assembramento era composto da gente comune, organizzati dal Collettivo delle madri e dei padri dei bambini della scuola Pit-Roig insieme agli ex alunni: difendere la scuola significava difendere la democrazia dall’arrivo della violenza della Guardia Civil e della Policia Nacional. Questi entravano e rompevano tutto danneggiando il plesso scolastico, oltre a picchiare le persone. Dunque difendevano anche la propria scuola dalla protervia della polizia. La polizia, in ogni caso, da noi non è arrivata dato che logisticamente era difficile da raggiungere, ma ha sfogato la propria violenza al mercato del Guinardò, a cinque minuti di cammino da noi: sono stati brutali e hanno picchiato tutti, riuscendo a chiudere il seggio. Tuttavia la Generalitat è riuscita a sviluppare un sistema informatico per cui, attraverso l’identità digitale, un elettore poteva recarsi a votare in un altro seggio, se il suo fosse stato chiuso o distrutto. Dunque il voto non era legato al seggio, ma al diritto individuale, diciamo. Molti del collegio del Guinardò sono venuti al nostro seggio per votare.»
Con quale organizzazione politica sei stato in contatto?
«Siamo stati in contatto con la sinistra antagonista della CUP (Candidatura d’Unitat Popular). La CUP è un’organizzazione di diverse realtà della sinistra, anticapitaliste, antimperialiste, femministe, in cui ci sono organizzazioni marxiste-leniniste, comuniste, giovanili dell’area della sinistra rivoluzionaria. Nella CUP, in ogni caso, si mantiene la libertà di aderire come organizzazione o come militanti, dunque molti militanti di organizzazioni della sinistra rivoluzionaria o comuniste non aderiscono formalmente, ma i loro militanti sì.
La CUP è una sorta di casa comune: nasce come piattaforma civica di sinistra, nelle città e nei paesi. Ha avuto una crescita enorme, determinando quello che viene chiamato il ‘processo di disconnessione dalla Spagna’, e arrivando anche ad imporre al Governo catalano scelte significative. La CUP, in ogni caso, appoggia dall’esterno il Governo Catalano dopo aver sottoscritto un accordo, ovvero il raggiungimento del processo di disconnessione sopracitato, fino al raggiungimento dell’indipendenza.
Quando si è trattato di scegliere il Governatore ad esempio, l’ex Convergencia y Unio propose Artur Mas, ma la CUP rifiutò tale figura perché ritenuto responsabile di una gestione pro-austerity non affine a quella della CUP (per l’appunto), e aveva proposto il Sindaco di Girona perché progressista e non legato a doppio filo con la politica dell’austerità di Mas. La CUP, insomma, ha avuto un ruolo importantissimo nella radicalizzazione del processo.
Abbiamo partecipato ad un incontro internazionale, all’Institut del Teatr, in cui sono intervenute le organizzazioni anticapitaliste della sinistra d’Europa, come le organizzazioni indipendentiste: dai baschi alla Rete dei Comunisti italiana, fino ai movimenti antifascisti tedeschi e ad alcuni comunisti spagnoli. Tutti uniti, insomma, nel sostenere che l’indipendenza della Catalogna è il primo passo per rompere con le politiche dell’UE e dell’austerità. Il movimento indipendentista catalano, infatti, ha un’anima anticapitalista, antimperialista molto importante: la ‘disconnessione’ dalla Spagna è il primo passo per l’innesco di un processo rivoluzionario a livello mediterraneo, europeo e mondiale.
Un’ultima cosa: quasi tutti i seggi erano presidiati dalla Sinistra Anticapitalista: in Catalunya ci sono due ‘sinistre’: la CUP e l’Esquerra Republicana, la seconda più socialdemocratica. La riconoscibilità sociale della CUP era chiara e manifesta, si è mossa bene per ottenere il consenso del popolo».
Quali sono state le tue sensazioni prima, durante e dopo l’“1-O”? Cosa hai visto?
«Le sensazioni sono tante e non sono spiegabili a parole. Mi sono sempre chiesto come potessero funzionare la Comune di Parigi, i soviet e tutti i processi rivoluzionari di cui leggevo sui libri. Adesso, a seguito dell’esperienza catalana, posso dire di averne un’idea, fatte le dovute proporzioni ovviamente. Ho visto coi miei occhi gente normale, non ‘militanti’, inserita in un processo rivoluzionario, con una coscienza politica altamente sviluppata: si faceva subito silenzio quando c’era da decidere e da dibattere su qualcosa, ci si stringeva in assemblea e si ascoltava un ragazzino di 20/22 anni con uno di quei microfoni minuscoli (o addirittura senza amplificazione) in religioso silenzio. C’era rispetto, disciplina e unità d’intenti. Sono arrivato, poi, in un quartiere, in un centro elettorale in cui pochi minuti prima stava per arrivare la Polizia, e come un sol uomo centinaia di persone si sono mosse per fermare la forza pubblica bloccando il traffico e i pullman in punti nodali strategici, per non farli passare. E non sono riusciti ad arrivare. Queste cose le avevo lette nei libri, ne avevo sentito parlare, ma non le avevo mai viste e non pensavo che potessero (r)esistere, dopo la vittoria dell’individualismo e del capitalismo ormai acclarata e accertata. Non pensavo che fosse più possibile questa solidarietà e questa fraternità. Un professore dell’università di Barcellona, ad esempio, ci ha accompagnato fino all’aeroporto perché c’era lo sciopero: noi non conoscevamo questa persona, ma si è subito messo a disposizione perché sapeva che i sardi dovevano tornare all’aeroporto e non potevano raggiungerlo, svegliandosi alle 3 del mattino e prendendo strade secondarie perché l’autostrada era bloccata.
A volte penso ai militanti della sinistra rivoluzionaria che hanno difficoltà ad alzarsi presto la mattina per andare ad una manifestazione o partecipano di malavoglia ad un’assemblea: vedere tutto questo mi ha dato speranza, perché sono convinto che presto la Storia verrà a bussare alla porta. Verrà in Sardegna e alle porte di tutti i popoli oppressi che vogliono ribellarsi alla società capitalista, imperialista e colonialista. Ho provato una grande forza, e ne ho tratto molta energia, non vorrei esagerare, ma credo di aver visto la possibilità di una società diversa.»
Dichiarazione di indipendenza: pare che il 9 la Generalitat si dichiarerà formalmente indipendente dal Governo Spagnolo. Che ne pensi e cosa ritieni che la sinistra anticapitalista catalana debba continuare a fare?
«Penso che avverrà anche prima. Il 6, infatti, sarà l’Anniversario della dichiarazione di indipendenza della prima Repubblica di Catalogna degli anni ’30, repressa nel sangue. Cosa deve fare la sinistra anticapitalista catalana penso lo sappia bene da sè. In questo momento è molto prezioso mantenere l’Unità nazionale del popolo catalano, se si dovesse rompere sarebbe un disastro senza precedenti, per cui avere posizioni settarie, di carattere ideologico, operaista, ‘terziste’ (né con uno, né con l’altro) non fa bene. Se il Governo catalano, infatti, dovesse cambiare posizione, il popolo catalano rovescerebbe il Governo senza pensarci un secondo, per cui il popolo è protagonista. Il Governo, infatti, ha semplicemente fatto in modo che questa volontà potesse esprimersi: la Generalitat ha dato le urne nelle mani del popolo catalano che le ha protette clandestinamente. Hanno votato quasi 3 milioni di persone (dato che sono stati conteggiati 2 milioni e 300 mila voti a cui mancano all’appello 700 mila voti requisiti dalla Polizia Spagnola) praticamente in clandestinità: venivano sequestrati i manifesti pro-referendum, venivano chiusi i domini dei siti internet e il Governo catalano non avrebbe avuto nessuna possibilità di sostenere tutto questo, senza il popolo. Non un euro è stato speso, non come accade in Italia. Se si rompe l’unità che ha portato milioni di persone a resistere passivamente davanti la polizia spagnola, facendo fallire miseramente il tentativo di impedire il referendum (nanche il Re, nel discorso di ieri, ha dichiarato che è stato impedito il referendum, solo Rajoy).
Lo Stato Spagnolo ha perso questa battaglia, nonostante l’appoggio internazionale della UE, degli USA e della violenza. Di fronte a tutto questo, posso solo augurarmi che il popolo catalano mantenga la propria unità, perché di per sé la proclamazione della Repubblica Catalana è il primo passo contro un’Europa basata sul capitalismo, sull’imperialismo, sull’austerità, sullo sfruttamento dei popoli, dei lavoratori. Dopo questa frattura tutto sarà più facile, per chi lotta contro l’autoritarismo e la violenza privata degli Stati costruiti dai capitalisti e dai borghesi. L’accordo che c’è fra la sinistra anticapitalista catalana e la piccola borghesia catalana, dato che la borghesia catalana non è totalmente a favore dell’indipendenza, asseconda il messaggio dei marxisti, dei leninisti: i rivoluzionari devono approfittare delle contraddizioni della borghesia per costruire un blocco sociale che faccia avanzare il processo rivoluzionario. E questo i catalani lo stanno facendo assai bene».