La violenza si è protratta per giorni. Il governo del Mynamar ha immediatamente classificato l’ARSA come un gruppo terroristico, organizzando al tempo stesso aggressive ‘operazioni di pulizia’ nei villaggi dello stato di Rakchine. Il governo birmano e l’ARSA si accusano a vicenda per i civili morti durante il conflitto.
Poiché il conflitto non accennava a diminuire, il governo birmano ha tentato di aiutare le etnie non musulmane dell’area a reinsediarsi in altre zone, ma i civili Rohingya, che sono circa 1 milione, non sono stati così fortunati. Conseguentemente, decine di migliaia di Rohingya musulmani hanno deciso di attraversare il confine con il Bangladesh per fuggire dagli scontri in atto.
Sebbene siano diversi i gruppi etnici colpiti dal conflitto, i media internazionali si sono concentrati soprattutto sul trattamento riservato ai Rohingya non militanti che fuggivano dalla violenza, mettendo in evidenza le molte denunce di atrocità commesse dall’esercito a danno dei Rohingya. I media locali invece hanno dato maggiore rilevanza alle vittime di altri gruppi etnici che vivono nell’area, che sarebbero stati uccisi durante gli attacchi dell’ARSA.
La comunità internazionale ha esortato il governo del Myanmar a cessare la violenza e ad intraprendere tutte le azioni necessarie per aiutare i rifugiati. Tuttavia, molte persone nel paese hanno criticato i media internazionali accusandoli di essere parziali per aver ‘ignorato’ le difficoltà della popolazione buddista locale, anch’essa costretta a fuggire a causa degli scontri tra il governo e l’ARSA.
Attacchi alle narrative sui media internazionali
Anche se la pubblicazione di propaganda basata sull’incitamento all’odio e su foto false è un fenomeno che affligge lo spazio pubblico del Mynamar da qualche anno, il fenomeno è diventato più vistoso dopo gli scontri del 25 agosto. Queste tensioni hanno generato una “guerra mediatica” online con valanghe di messaggi propagandistici malevoli, il cui scopo è quello di dare una versione del conflitto diversa da quella fornita dalla stampa internazionale.
Ciò che è emerge vistosamente da queste immagini è l’erronea identificazione dei Rohingya con i bengalesi. Lo stato di Rakchine ospita molte minoranze etniche come i Rakhine, i Mro, i Rohingya e i Dai-Set. Il governo del Myanmar riconosce tutte queste popolazioni come gruppi etnici, fuorché i Royingya, che sono per lo più musulmani. I Rohingya vengono infatti per lo più chiamati “bengalesi”.
I bengalesi sono uno dei gruppi etnici più popolosi dell’Asia meridionale. In Myanmar però il termine “bengalese” ha un altro significato; è infatti diventato un termine spregiativo usato per riferirsi ai Rohingya che sono immigrati dal Bangladesh senza documenti. Questo appellativo, così come l’insulto ‘kalar‘, vengono utilizzati per diffamare in termini razzisti i Rohingya del Myanmar sia online che in altri contesti.
Altre immagini condannano i giornali internazionali per essersi interessati esclusivamente alla tragedia dei Rohingya.
Nell’immagine seguente si insinua che i Rohingya abbiano in qualche modo “sedotto” la stampa internazionale convincendola a diffondere informazioni volutamente errate sulla situazione:
Immagini come quelle precedenti e altre che contengono rappresentazioni più esplicite di queste idee, sono diventate virali sui social network del Myanmar.
Campagne di denigrazione online coordinate
Oltre alla condivisione e alla ripubblicazione di queste foto, alcuni osservatori hanno notato che i trend di condivisione sembrano coordinati.
L’analista indipendente Raymond Serrato ha rilevato un insolito picco di 1.500 nuovi account di Twitter con hashtag provocatori creati dopo gli scontri del 25 agosto. Molti dei questi account fittizi hanno diffuso messaggi filogovernativi che includono anche hashtag come #Bengali o #BengaliTerrorists. Non sa chi ci sia dietro agli account, ma il trend fa venire in mente il fenomeno delle “Twitter Brigade” che ha interessato molti paesi come l’India e gli Emirati Arabi Uniti.
In un altro caso, una campagna su Facebook invitava gli utenti a dare una recensione negativa al Servizio Birmano della BBC e alle pagine VOA (Voice of America) dedicate al Myanmar, ossia di assegnare loro una stella per i loro servizi sui Rohingya e di dare invece cinque stelle alla pagina Facebook del Consiglio di Stato del Myanmar. Identiche pagine di recensioni da account unici (vedere gli esempi seguenti) indicano che si tratta di un’iniziativa coordinata per screditare i media internazionali.
Le campagne di diffamazione online coordinate si sono estese anche alla pirateria informatica. Alcuni giornali locali hanno riferito che molti siti del governo del Mynmar sono stati attaccati da pirati informatici la scorsa settimana, presumibilmente come ritorsione al trattamento riservato ai Rohingya del governo.
Foto false o di origine incerta
E’ difficile ottenere informazioni accurate sul conflitto perché i giornalisti stranieri e della regione hanno dovuto lottare per accedere alle aree interessate. Ciò ha fatto sì che ci sia un vuoto di informazioni e fotografie sull’area centrale del conflitto, che è spesso stata coperta con immagini ritoccate o provenienti addirittura da altri paesi. Queste foto vengono utilizzate da entrambe le parti a fini propagandistici.
Di seguito, sono mostrati due esempi di post con discorsi di incitamento all’odio contro i Rohingya (osservate le parole usate per gli hashtag):
Di seguito, alcuni esempi di foto a favore di Rohingya che provenivano dal Nepal e dall’Indonesia, come è stato provato in un momento successivo:
Il governo del Mynamar ha creato una pagina Facebook ufficiale, il cosiddetto ‘Comitato per l’Informazione’, allo scopo di offrire una piattaforma che consenta di verificare le informazioni sulla situazione nello stato di Rakchine. Tenuto conto delle circostanze, anche questa iniziativa è da prendere con le molle.
A causa dei messaggi propagandistici in conflitto tra loro, le notizie false che stanno inondando internet e dell’accesso limitato alle zone interessate dal conflitto, non è possibile verificare quali siano le condizioni attuali ora che il conflitto è cessato.