A settembre inizia il nuovo anno scolastico. Quest’anno la preoccupazione maggiore delle famiglie con figli minori non è legata alle ricorrenti carenze scolastiche, ma alle vaccinazioni obbligatorie, che la nuova legge ha aumentato da 4 a 10 e che riguardano tutti i minori che non hanno ancora compiuto 17 anni di età (quindi anche oltre l’età dell’obbligo scolastico). È vero che il Parlamento ha attenuato l’impatto del provvedimento originario (il Decreto Legge del Governo), riducendo le vaccinazioni da 12 a 10 e abbassando da 7.500 a 500 euro il tetto massimo della sanzione per gli inadempienti, ma le novità in tema di vaccini non sono di poco conto rispetto agli anni precedenti. Basti dire che i bambini non vaccinati con età inferiore ai 6 anni non potranno frequentare gli asili nido e le scuole dell’infanzia, mentre quelli oltre i 6 anni saranno ammessi nelle scuole dell’obbligo ma con il pagamento di una sanzione e con il rischio di dover cambiare classe (poiché è previsto soltanto uno studente non vaccinato per ciascuna classe).
Durante l’estate abbiamo assistito ad un confronto molto acceso su questo tema delicato, visto che riguarda un diritto fondamentale come la salute, che è tutelato costituzionalmente (art. 32). Spesso si è trattato di un dibattito segnato da impostazioni ideologiche e dogmatiche, con il risultato di stigmatizzare tutte le posizione critiche o dubbiose rispetto alle scelte politiche intraprese. In questo contesto un ruolo decisivo e negativo è stato svolto dai media che in generale hanno trasmesso un allarme sociale ingiustificato e che hanno presentato il problema come se si trattasse di uno scontro tra scienza e oscurantismo.
In realtà anche sul tema della profilassi vaccinale è in gioco il modo di intendere il metodo scientifico, che di solito ci viene presentato come espressione dell’autorevolezza cattedratica attraverso l’intervista ad un personaggio di rilievo, mentre invece proprio la scienza si fonda sul pensiero critico, dialettico, aperto, disponibile a modificare le convinzioni tenendo conto di dati nuovi e fattori alternativi. Purtroppo nel furore della polemica finora non si è dato adeguato spazio alle voci di scienziati della medicina che sottolineano la complessità del problema delle vaccinazioni, considerando gli aspetti positivi, ma senza nascondere le problematicità e gli aspetti contraddittori.
In questa prospettiva si colloca il documento predisposto dal Consiglio direttivo nazionale della SIPNEI (Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia) sulla nuova legge sui vaccini, nel quale si dimostra – attraverso dati ed evidenze scientifiche – che la legge voluta dal Ministro Lorenzin «non regge». Vediamo di seguito i punti salienti delle osservazioni presentate dalla SIPNEI.
Anzitutto, viene ridimensionata la presunta epidemia di morbillo in Italia: «La premessa su cui si fonda la decisione governativa è che saremmo in presenza di forti rischi per la collettività essendosi pericolosamente abbassati i tassi di copertura vaccinale, che non garantirebbero la cosiddetta “immunità di gregge”. I dati portati a sostegno riguardano la diffusione del morbillo nel nostro Paese, che nell’anno in corso sarebbero a livelli eccezionalmente alti. La serie storica dei dati degli ultimi anni e il suo paragone con paesi europei simili, pur senza sottovalutare l’andamento dell’infezione, non confermano l’eccezionalità dell’attuale diffusione del morbillo. Ad oggi il morbillo è endemico in molti paesi europei tra cui Germania, Belgio, Svizzera, Francia, Polonia, Romania e altri. Non risulta che Francia, Germania, Svizzera, Belgio abbiano introdotto l’obbligatorietà della vaccinazione MPR (Morbillo Parotite Rosolia), pur essendo attivamente impegnati nel controllo della diffusione di questi agenti infettivi».
Inoltre – secondo la SIPNEI – la premessa scientifica su cui si fonda la decisione dell’estensione dell’obbligatorietà vaccinale, che è costituita dalla cosiddetta “Immunità di gregge”, secondo cui “è necessario raggiungere il 95% della copertura vaccinale per ottenere l’effetto gregge” «presenta molte falle». Anzi, l’informazione che è stata data al pubblico e agli stessi operatori sanitari, sulle percentuali di copertura vaccinale necessarie per raggiungere il cosiddetto “effetto gregge”, «è assolutamente parziale e quindi, sostanzialmente, non veritiera. Secondo fonti ufficiali (Organizzazione mondiale della sanità e Istituto Superiore di Sanità), le coperture vaccinali critiche per l’immunità di gregge sono altamente variabili: il fatidico 95% viene indicato solo per il morbillo. È bene sapere che per la poliomielite, le istituzioni citate danno come copertura necessaria 80-86%; per la parotite 75-86%; per la rosolia 83-85%; per l’ Hemophilus infl. B il 70%». Senza considerare il tetano, che non è trasmissibile e per cui non ha senso parlare di “effetto gregge”.
Nelle recenti discussioni sul tema di solito si è sorvolato su aspetti importanti come i diversi effetti prodotti dall’immunizzazione naturale rispetto a quella ottenuta con la vaccinazione. È noto e dimostrato scientificamente che l’immunizzazione naturale, a differenza di quella indotta dal vaccino, causa una stimolazione immunitaria più prolungata ed efficace nel tempo. Questo fatto, per esempio se posto in relazione alla diffusione del morbillo, ha una forte rilevanza per la quota di bambini infettati con meno di un anno di vita, un’età a rischio, in cui ancora non è raccomandata e praticata la vaccinazione antimorbillo. «Le donne immunizzate naturalmente trasmettono una quantità di anticorpi nettamente superiore a quella delle donne vaccinate. La differenza della presenza di anticorpi anti morbillo, in bambini nati da madri che hanno subito il contagio rispetto ai nati dalle vaccinate, è netta e rintracciabile per lo meno fino all’età di 5 mesi. Quindi, donne che, nella loro infanzia, si sono vaccinate contro il morbillo potrebbero non trasmettere un’adeguata protezione anticorpale ai propri figli nel primo anno di vita, a differenza delle donne che hanno contratto un’immunizzazione naturale».
Occorre tenere sempre presente che nessun vaccino è mai completamente sicuro. Gli effetti avversi delle vaccinazioni sono un dato di fatto, riconosciuto anche da sentenze della Corte Costituzionale. «In Italia, pur scontando un sistema di sorveglianza che è un eufemismo definire scarsamente efficiente, le segnalazioni all’AIFA di effetti avversi, successivi alle vaccinazioni, nel 2014 sono state 8.873, di cui una quota (con diverse centinaia di casi) classificata grave (con alcuni decessi). Secondo il Rapporto dell’AIFA, il vaccino Morbillo-Parotite-Rosolia (MPR) ha un tasso di segnalazioni di effetti avversi gravi tra i più alti: 201 su 100.000 dosi per un totale di 479 casi nello scorso anno, la cui quota maggioritaria spetta all’abbinamento del trivalente con il vaccino contro la varicella (MPR+V oppure MPRV). Tuttavia, anche l’esavalente ha un tasso elevato di segnalazioni gravi: 166 ogni 100.000».
Che effetti possono generare 6 vaccini somministrati contemporaneamente, seguiti a breve da altri 4 vaccini iniettati insieme? «Sotto questo profilo, la “tesi” che non c’è alcun problema a somministrare diversi antigeni insieme, poiché il bambino ogni giorno incontra centinaia di antigeni senza danno, ci sembra non regga ad un esame anche non troppo approfondito, poiché il solo buon senso ci consente di comprendere che gli antigeni multipli, che immettiamo con i vaccini, non sono banali, ma componenti di aggressivi agenti infettivi, che è alquanto irreale incontrare tutti insieme in natura». La SIPNEI sottolinea il fatto che nessuno finora ha prodotto dati certi sugli effetti delle formulazioni multiple sul sistema immunitario del neonato. Del resto anche il Parlamento – emendando il testo governativo – ha previsto l’uso dei vaccini monodose, mentre la campagna ufficiale del Ministero della salute continua a proporre soltanto due somministrazioni (esavalente + quadrivalente).
In sintesi, la scelta dell’obbligo per 10 vaccini «si mostra non solo inopportuna, ma anche infondata sul piano scientifico, poiché lo Stato può chiedere alla persona (o al suo tutore) la violazione della libertà individuale, riguardo alla propria salute, se dimostra che le misure obbligatorie servono a scongiurare un rischio collettivo riferito ai singoli vaccini proposti. Da quanto abbiamo scritto, è errato mettere tutti vaccini sullo stesso piano: alcuni di loro non producono alcun “effetto gregge”, altri conferiscono un’immunità che deperisce nel tempo».
Infine, si pone anche una questione di correttezza e di trasparenza: «Pensiamo che servirebbe molto alla scienza e alla ricostruzione di un rapporto di fiducia con ampie fasce della popolazione, l’istituzione di una Commissione di valutazione e controllo sui vaccini indipendente e cioè composta da ricercatori, scienziati ed esperti di politica sanitaria che non abbiano legami con l’industria e con le associazioni professionali, spesso molto adese all’industria. Una Commissione sul modello della Task Force statunitense che si occupa di valutazione delle politiche preventive (USTFP), senza legami con l’industria e con le corporazioni professionali. Occorre cioè proteggere la società dalle infezioni, ma anche dagli interessi di parte». E soprattutto dall’epidemia della disinformazione a cui abbiamo assistito in questi ultimi mesi.
In questo scenario, qual è la posizione e la proposta alternativa del SIPNEI? «Siamo contrari alle vaccinazioni obbligatorie (in linea con tutti i paesi europei più avanzati e da alcuni anni in Veneto, con ottimi risultati), bensì proponiamo una riorganizzazione delle politiche vaccinali, che a livello statale dovrebbe selezionare le priorità epidemiologiche e, a livello territoriale, dovrebbero avere come perno il pediatra, che ha in cura fin dalla nascita il bambino, che verrebbe inserito in finestre di opportunità vaccinale, anche utilizzando i vaccini monodose, in base alle caratteristiche del bambino. Siamo convinti che una politica di promozione attiva, centrata sulla flessibilità dei programmi vaccinali, nel quadro di politiche di protezione della gravidanza e di promozione della salute dell’infanzia, permetterebbe un salto in avanti nella prevenzione primaria, da sempre trascurata nel nostro Paese, e porrebbe su basi nuove le relazioni tra cittadini e scienza e tra curati e curanti». Appare evidente che questa prospettiva sia ragionevolmente fondata e nell’interesse della tutela del benessere dei cittadini e della collettività.
A questo punto si pone una domanda di fondo: c’è qualcuno in Parlamento e al Ministero della salute che abbia letto senza pregiudizi questo documento, redatto da persone professionalmente e scientificamente competenti, e che sappia spiegare perché oggi ci ritroviamo con una legge che va esattamente in direzione opposta?