Come si può vivere cambiando paradigma e modificando il nostro quotidiano per mettere un freno al consumismo e allo sfruttamento di risorse che ci sta condannando a morte? Può essere utile guardare ad altre culture che hanno mantenuto un legame più strettocon la natura? Ne parliamo con Federica Giunta, antropologa ambientale.
Nelle società capitaliste sembra aumentare sempre di più la distanza tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda. Le società sembrano muoversi, andare avanti o “correre”, come si dice quando ci si esalta perorando la causa della necessità della crescita, indifferenti o ignare della distanza tra il consumo sempre maggiore e le risorse che quel consumo dovrebbero sostenere. Per molti, considerati i più sensibili al problema, è fondamentale e urgente uno sviluppo sostenibile. Tuttavia, c’è chi crede che questo sia solo una bella favola che qualcuno continua a raccontarci e che uno sviluppo davvero sostenibile non esista perché basato su un fondamentale squilibrio tra chi di quello sviluppo gode e chi lo deve, molto lontano da noi, sostenere. A carissimo prezzo. Le questioni che si aprono e le domande che si pongono in questo ambito sono moltissime e complesse.
Ne parliamo con Federica Giunta, antropologa culturale, specializzata in Antropologia ambientale e attivista per i diritti umani e della natura. Ha svolto ricerche in Asia, Africa e, attualmente in America Latina dove studia e supporta comunità indigene e rurali in lotta per la salvaguardia socio-territoriale. È membro dell’organizzazione ecuadoriana Clínica Ambiental-Acción Ecologica e attualmente impegnata alla frontiera fra Turchia e Siria in un progetto di sensibilizzazione ambientale in un centro di accoglienza per profughi afgani e siriani.
Di che cosa si occupa un’antropologa ambientale?
Un’antropologa ambientale studia le relazioni fra gli esseri umani e l’ambiente che li circonda, cercando di interpretare le dinamiche che sostengono questa relazione e di comparare le differenti tecniche adattative dei membri di una determinata società all’ambiente. Personalmente ho sempre provato a lavorare in contesti rurali ed indigeni così da rendere visibile, attraverso le mie ricerche e le mie lotte sociali, quella differenza fondamentale fra le società dove gli esseri umani ancora vivono in forte interdipendenza con il territorio che li accoglie e quelle in cui dinamiche capitaliste e di sfruttamento hanno allontanato questi due mondi. Gli interessi di un’antropologa ambientale possono comprendere questioni legate alla giustizia e all’accessibilità delle varie comunità alle risorse naturali e alla gestione dei beni comuni. Si tiene, inoltre, sempre presente la valutazione di nuove forme di stratificazione e disuguaglianza legate alla mercificazione e a vari aspetti dell’economia liberista, sviluppando nuovi modi di pensare alle interdipendenze. Si dettagliano, infine, le traiettorie storiche (tra cui il colonialismo, il capitalismo, l’imperialismo) che modellano le opinioni contemporanee a livello locale e globale.
Quando è nata l’antropologia ambientale?
L’antropologia ambientale è nata negli anni settanta, subito dopo la formazione di movimenti ambientalisti, di protesta e di sensibilizzazione rispetto a tematiche legate alla salvaguardia ambientale. Con l’aumento dei movimenti ambientali e dei paradigmi ecologici del XX secolo, anche gli antropologi hanno adottato nuove prospettive. Infatti l’antropologia ambientale è nata in concomitanza con un’altra disciplina, l’antropologia della crisi, nel momento in cui ci si è resi conto che la crisi dovuta alla contaminazione e alle pratiche di sfruttamento estremo della natura coinvolgeva anche la vita delle società in qualsiasi latitudine. Antropologia della crisi e antropologia ambientale sono nate insieme e sono relazionate in modo stretto perché nel momento in cui una struttura culturale affronta una criticità ambientale deve affrontare una serie di crisi sistemiche interconnesse. Questo ha fatto nascere il desiderio e la necessità di capire quelle dinamiche.
Antropologia della crisi?
Sì, si chiama esattamente così. Il prodursi di una crisi determina, infatti, un momento di perturbazione che tende a determinare un’incertezza strutturale, come può essere quello di una formazione sociale o di una dinamica eco-sistemica. Ed è per questo che questa disciplina si trova in stretta relazione con l’antropologia ambientale: dal momento in cui una società: si trova ad affrontare una criticità ambientale deve confrontarsi anche con una serie di problemi correlati, come lacerazioni del tessuto sociale e contaminazioni delle risorse naturali.
Può farci un esempio?
Prendiamo l’estrattivismo come pratica umana che coinvolge con pesanti ripercussioni la dimensione territoriale. Creare un sistema estrattivo non significa solamente l’azione meccanica di estrazione, che possa essere petrolifera o mineraria. Estrarre significa creare una geografia, ambientale ed umana, che va a cambiare il territorio che ci circonda attraverso la creazione di strade di collegamento in zone naturali spesso incontaminate; creare immigrazione di lavoratori e tecnici che provengono dall’altra parte del mondo (per esempio cinesi o nordamericani in Sudamerica); significa introdurre non solo qualcosa di alieno in un contesto culturale e ambientale, che in un mondo globalizzato è sempre più usuale, ma sfruttare ed abusare di un sistema naturale e sociale senza consulta previa o attenzione verso le realtà locali. Le azioni che si attuano sul territorio determinano danni anche in ambito culturale e le problematiche e crisi ambientali hanno effetti nocivi sempre di più sugli aspetti della formazione e interazione sociale. Da qui nasce l’antropologia ambientale.
Lei dice che l’antropologia dell’ambiente e quella dell’ambientalismo sono due cose diverse. Qual è la differenza?
La differenza è che l’antropologia dell’ambiente è lo studio delle interazioni fra esseri umani e ambiente circostante, mentre quella dell’ambientalismo, nata negli anni Sessanta, si basa sull’analisi delle formazioni sociali di protesta contro contaminazioni ambientali e di movimenti critici nei confronti di un sistema economico che ha iniziato a creare “crisi ambientali”. Kay Milton, una delle più importanti antropologhe ad aver analizzato l’ambientalismo, si chiede come mai gli esseri umani si possano dividere fra chi si batte in difesa dell’ambiente e chi non si cura di questo, sfruttandolo e contaminandolo. Nonostante non si riesca ad arrivare a nessuna conclusione, in alcune parti la Milton parla di un approccio emozionale alle questioni ambientali, basandosi su studi che parlano di una romanticizzazione della natura, anche se secondo me potrebbe essere un errore, portare qualcosa di politico sul piano dell’emozionalità personale.
Che cosa si intende per cultura?
In questo mondo dominato da dinamiche di globalizzazione, migrazioni e crisi è difficile dare una definizione. Se si pensa all’antropologia questa è una disciplina che nasce dalla constatazione che la specie umana è una specie sociale, che si basa cioè sulle relazioni che intercorrono fra individui e sulla loro creazione di strutture sociali e fatti sociali, che persistono o mutano. La cultura potrebbe definirsi come un sistema di credenze e valori condivisi, comportamenti e oggetti materiali che i membri di una società utilizzano per affrontare il proprio mondo e per affrontare il rapporto interpersonale, e che vengono trasmessi da generazione in generazione attraverso la trasmissione e l’apprendimento.
Possiamo dire che è tutto ciò che non è natura?
Non direi, proprio perché secondo me è errato creare una divisione così netta fra i concetti di natura e cultura, che in realtà, proprio per superare le numerose crisi ambientali che stiamo vivendo, dovrebbero essere riavvicinati e messi in dialogo fra di essi. È infatti l’ambiente naturale che determina le caratteristiche proprie di una determinata cultura, le sue dinamiche di adattamento e distribuzione, le sue forme di parentela e le sue cosmogonie. Dall’altro lato la cultura formatasi, per l’antropologia ecologica, è stata vista conseguentemente come mezzo di adattamento ambientale delle popolazioni umane. Sulla base di una tale teoria, gli antropologi ecologici si sono concentrati su come gli aspetti del comportamento culturale mantengano equilibrio o “homeostasi” nei rapporti tra un gruppo locale e le sue risorse ambientali e promuovano così la sua sopravvivenza a lungo termine.
Quando è iniziato il distacco tra uomo e natura? Qual è la differenza tra l’uomo e gli altri animali?
C’è la descrizione quantitativa e biologica che parla di pollice opponibile, postura eretta, la struttura del cranio, ecc. C’è però una teoria interessante. L’uomo, sarebbe un animale biologicamente incompleto, come riferisce l’antropologo tedesco Arnold Il Gehlen, tesi supportata per esempio anche da Remotti e Speranza. Le sue caratteristiche non sono adeguate a livello fisico e istintuale e non gli permettono di sopravvivere in contesti territoriali apparentemente avversi alla sua permanenza. La creazione di strumenti “culturali” ha permesso quindi all’uomo di adattarsi: è infatti l’unica specie che troviamo a tutte le latitudini. La sua inadeguatezza fisica è stata compensata dalla capacità di creare cultura, cioè tutti quegli elementi prodotti artificialmente come il linguaggio, gli utensili, la conoscenza tecnica, le tradizioni, le istituzioni, etc. atti a modificare a proprio vantaggio le condizioni d’esistenza. Molti antropologi danno questa interpretazione. La maggior parte degli animali sono intelligenti, probabilmente anche più degli esseri umani, ma in maniera differente. Si pensi al linguaggio, per esempio.
Però anche gli altri animali comunicano.
Sì, ma si tratta di un suono. L’uomo ha creato un linguaggio articolato e che può essere simbolico. Se articolo qualcosa, costruisco e posso ricordare ed è da questo momento che posso iniziare a mettere insieme immagini, simboli, fatti, a ricordarli e a dar loro una struttura. L’essere umano è l’unico che si autopercepisca e racconti una storia che è frutto di una memoria personale che poi, in una formazione culturale, diviene collettiva. E’ capace di percepire un io e di conseguenza un ego, un individualismo e un egocentrismo che porta poi a desiderare per sé. Forse proprio da qui questa tendenza di allontanarsi dal naturale, esacerbata nella modernità dal momento in cui la dipendenza dalle risorse naturali non è più così diretta.
Se l’uomo è così intelligente come mai non riesce a percepire i pericoli cui sta andando incontro?
Il punto non è che l’uomo è “così” intelligente. Il punto è che ha un tipo di intelligenza differente dagli altri animali (quindi differenza qualitativa e non quantitativa). Nella società in cui viviamo noi credo si sia esacerbata la dinamica di individualismo ed egocentrismo che non permette di valutare una visione d’insieme che quindi ci collochi in un territorio, in un contesto “mondo”. Questo crea una forte inconsapevolezza rispetto a quanto le nostre azioni influenzino l’ambiente a livello macroscopico e a quanto la salvaguardia della natura possa essere di beneficio ad ognuno di noi, come parte di una collettività. Infatti, nel momento in cui ci siamo affidati ad una logica capitalista in cui la natura viene depredata, siamo arrivati ad una alienazione totale non solo come esseri umani ma anche nei confronti della natura.
Che cos’è l’intelligenza?
Il discorso sarebbe lunghissimo ma molto in breve è la capacità di adattamento dell’essere umano. Nonostante questo, se riportiamo questa capacità ad un discorso contemporaneo e critico nei confronti del sistema capitalista, credo che stia diventando sempre più difficile per noi sostenere i cambiamenti (erroneamente chiamati sviluppo!) di cui siamo responsabili. Pensiamo alle malattie alle epidemie, ad esempio la malaria o il colera o l’aids, sempre più connesse con dinamiche contemporanee ed acutizzati da un deterioramento socio-ambientale. La nostra “intelligenza” dovrebbe quindi suggerirci di politicizzare la lotta alle varie crisi ambientali, smettendola di relegarla solamente ad una questione individuale.
Le popolazioni indigene e incontattate vivono in equilibrio col territorio?
Nella maggior parte dei casi sì, dal momento in cui la loro vita dipende strettamente dal contesto territoriale e delle risorse che la natura può offrire loro per vivere. Nel contesto ecuadoriano in cui ho lavorato quest’anno si ha ancora la presenza di popolazioni indigene incontattate. Sfortunatamente devono ridisegnare costantemente i loro confini dal momento in cui sono costretti a sfuggire a dinamiche di sfruttamento capitalista delle risorse naturali, sia questo il petrolio, il legname o il caucciù. In questi casi delicati non bisogna romanticizzare troppo la visione delle popolazioni indigene, anzi bisogna rivendicare con loro un loro territorio e la dignità della loro espressione culturale. Non condivido molto l’ecologia emozionale e per questo credo che sia molto importante la conservazione. E’, tuttavia, necessario fare attenzione a trasformarla in segregazione (per esempio attraverso la costruzione di parchi naturali dove far vivere le comunità indigene). Ho conosciuto popolazioni che ancora non fanno uso del denaro e non fanno parte dell’economia neoliberista. Queste popolazioni sono riuscite a mantenere un approccio egalitario nei confronti della natura, anche attraverso conoscenze ancestrali che permettono loro di “preservarsi”: per esempio la visione e l’uso dell’acqua o dei beni comuni. I loro miti sono strettamente correlati con la natura: l’acqua per esempio è spesso associata ad una delle divinità più importanti di molti pantheon di differenti comunità, perché si è consapevoli della sua vitale importanza e che non si può contare su strumenti meccanici o scientifici per depurarla o ricrearla: si deve solo ascoltare e salvaguardare. Credo così che un problema delle società capitaliste sia proprio che la distanza tra consumo e risorse sia sempre più grande.
Raccontare e fare testimonianza sui limiti delle risorse è utile? Molti negano che esse possano finire. Gli ambientalisti sono destinati ad essere le “Cassandre” della situazione?
Credo che faccia comodo etichettare gli ambientalisti come allarmisti o catastrofisti, soprattutto a chi si sente che agire non gli competa perché le ripercussioni sulla sua vita non sono poi così ingenti. Inoltre, pensiamo sempre di non avere la responsabilità diretta sul nostro ambiente o che le crisi ambientali siano lontane, ben oltre il nostro giardinetto (da vedere il movimento NIMBY). Questo è vero soprattutto perché attraverso il colonialismo abbiamo obbligato altre nazioni e comunità, ben lontane dall’Italia, a farsi carico di processi estrattivi, trasformativi, produttivi e di smaltimento altamente contaminanti. Qui si pensa erroneamente che solo delegando i politici e relegando le responsabilità alle istituzioni si stia agendo a favore della salvaguardia del nostro territorio.
Lei è ottimista o pessimista sul futuro che ci aspetta?
Personalmente penso che si vada incontro ad un collasso della struttura sociale esistente ma sono per natura un’ottimista e credo che possiamo ancora ristabilire dinamiche che riportino equilibrio nel rapporto fra essere umano e ambiente, soprattutto se ci si organizza attraverso una costruzione sociale di partecipazione attiva comunitaria. Dobbiamo svegliarci e muoverci adesso, smettere di lamentarci e fare qualcosa di concreto e coraggioso, senza rimandare le responsabilità ad altri.
Che cosa si deve fare, in concreto?
Smetterla di delegare ad altri ed agire.Vivo in America Latina e, probabilmente per le forti crisi ambientali causate per esempio dall’estrattivismo, ho incontrato movimenti sociali più attivi, singoli individui più coinvolti, forse perché ancora impregnati di speranza, con una visione meno cinica della questione. La speranza porta ad agire, porta a sviluppare azioni concrete di intere comunità, di movimenti dal basso che possono determinarsi e quindi riappropriarsi dei processi decisionali.
Cosa pensa dello sviluppo sostenibile?
Penso che non esista. E’ un ossimoro. Il concetto stesso di sviluppo attuato da una società capitalista e colonialista non può dirsi sostenibile, se non per quella stessa società. Perché in fondo a discapito di chi lo stiamo effettuando? Per chi questo sviluppo risulta sostenibile? La nostra società lo perpetua, però sono altre società che realmente lo “sostengono”, società spesso discriminate e sfruttate proprio in nome dello sviluppo di qualcuno ben lontano da loro. Si dovrebbe rivedere la nostra proiezione del futuro non in maniera lineare ma circolare, dall’estrazione e trasformazione delle materie prime alla gestione degli scarti che queste producono. Ormai abbiamo capito che il solo sviluppo non è sostenibile per nessuno: né per noi né per l’ambiente.
Si dice che il capitalismo sia il problema. E questo sembra un modo per chiamarsi fuori dalla questione, come se non dipendesse da noi.
Il problema non è solamente il sistema capitalistico ma che tutti noi ormai lo attuiamo attraverso atteggiamenti e dinamiche capitaliste, adattando le nostre vite e i nostri bisogni a necessità innecessarie. Per me non può esistere un ambientalista che non si definisca anche anticapitalista. E non basta più solamente definirsi: si deve andare oltre l’apparenza e rivoluzionare le nostre vite, i nostri circuiti sociali, il nostro sistema economico. È importante infatti che l’indignazione per le problematiche moderne (si pensi all’immigrazione o al dilagante maschilismo) ci porti ad unirci e a creare la necessità di formare movimenti sociali che vadano oltre le nostre buone azioni quotidiane individuali ed individualiste.