Ho seguito in diretta il discorso di Jeremy Corbyn che ha chiuso il congresso laburista a Brighton e comincio dalla fine, dalla grande scritta “Hope for our country” (Speranza per il nostro paese) comparsa sopra il palco da cui ha parlato per più di un’ora, interrotto da cori entusiastici, applausi e standing ovations.
E in effetti la speranza era palpabile, non solo nel discorso, ma anche nel pubblico e perfino nelle migliaia di messaggi che arrivavano velocissimi (tanto che era molto difficile leggerli) nella pagina Facebook che trasmetteva l’evento. Anzi, più che di speranza, si può parlare di una vibrante energia, di un’appassionata fiducia nel fatto che i laburisti siano ormai “sulla soglia del potere”, pronti a sostituire al governo i conservatori, definiti “cinici e calcolatori”, indifferenti alla crescita della povertà e della disuguaglianza e pronti a usare la Brexit come un’occasione per trasformare il paese in un paradiso fiscale per ricchi e imprese, soprattutto multinazionali. Il leader laburista ha assicurato i tre milioni di europei che vivono e lavorano nel Regno Unito che “qui sono i benvenuti” e sostenuto l’accesso senza ostacoli al mercato unico.
Corbyn ha usato spesso la parola “unità”, sostenendo che il Partito Laburista è l’unico a poter unire non solo vecchi e giovani, ma anche chi nel referendum dell’anno scorso ha votato per restare in Europa e chi ha appoggiato la scelta di andarsene. Un’affermazione audace, viste le feroci divisioni interne degli ultimi anni (speriamo superate grazie alla trionfale ri-elezione a leader e all’inattesa rimonta nelle elezioni di giugno) e i forti sentimenti che animano i due schieramenti del “leave” e del “remain”. Corbyn si è tuttavia dimostrato sicuro di poter unire il paese in una visione progressista del futuro, basata su maggiori tasse per i più ricchi e per le imprese, su aumenti salariali, miglioramento degli standard di vita e di lavoro, ri-nazionalizzazione dei beni comuni come l’acqua e sostegno ai servizi sociali (primo tra tutti il servizio sanitario decimato dai tagli e dalle privatizzazioni dei conservatori), in modo che i migranti non vengano più accusati di tutti i mali del paese.
Si è soffermato a lungo sul problema della casa, definito una priorità per un governo laburista e ha avuto accenti forti e commoventi rievocando l’incendio della Grenfell Tower, atroce dimostrazione di quello che può succedere ai poveri in uno dei quartieri più ricchi di Londra. Ha toccato altri temi al centro del manifesto del partito e dell’ultima campagna elettorale, come l’università gratuita e la fine del blocco degli aumenti di stipendio per i dipendenti pubblici e ha lodato l’impegno dei membri del partito, soprattutto i più giovani. Ha espresso la sua ammirazione per tutto quello che hanno fatto e dichiarato che “non è mai stato così fiero di essere il leader del più grande partito politico dell’Europa occidentale, con i suoi 600.000 iscritti e i tre milioni di membri dei sindacati”.
Non sono mancati gli attacchi ai media conservatori, che hanno condotto una campagna forsennata contro il Partito Laburista e il suo leader. Con tono ironico e divertente, Corbyn ha ricordato le 14 pagine dedicate dal Daily Mail ad attaccarlo il giorno prima delle elezioni, aggiungendo: “Il giorno dopo i nostri voti sono saliti del 10%. Non è mai successo che tanti alberi morissero inutilmente. Dunque ho un messaggio per il direttore del Daily Mail: la prossima volta per favore dedicaci 28 pagine”.
Corbyn ha affrontato anche l’annoso assioma delle “elezioni che si vincono al centro” (un tormentone che purtroppo in Italia conosciamo bene): in un certo senso è vero, ha riconosciuto, purché sia chiaro che il centro politico di gravità non è qualcosa di fisso e inamovibile e nemmeno quello definito dagli opinionisti del sistema. Cambia a seconda delle aspettative e delle esperienze della gente e oggi non è più quello che era venti o trent’anni fa. La crisi economica e gli anni di austerity hanno spinto la gente a cercare proposte politiche alternative. “Il vero centro di gravità della politica britannica oggi è fondato sulla compassione e sulle aspirazioni collettive” ha sintetizzato.
La visione che ha più volte definito “socialismo del XXI secolo” si è poi allargata a un contesto più ampio. Corbyn ha parlato della necessità di proposte economiche che sostituiscano “i dogmi falliti del neo-liberismo”, di una politica estera fondata sulla pace, i diritti umani, la giustizia e il dialogo, contrapposta ai bombardamenti, alle guerre e alle invasioni che hanno solo esacerbato la minaccia del terrorismo e dell’importanza di una decisa lotta ai cambiamenti climatici. La democrazia, ha detto, è minacciata dalle dittature, ma anche dalle elite politiche, dai governi che non si interessano ai loro elettori. I politici invece devono rispondere a quelli che servono e rappresentano e non ascoltarli solo durante le campagne elettorali. Il potere va messo nelle mani della gente, “la gente creativa, compassionevole e impegnata di questo paese.”
Il finale ha portato l’entusiasmo alle stelle, con la promessa di offrire “un antidoto all’apatia e alla disperazione” e l’invito alla speranza comparso sopra il palco. Una promessa e un invito che andrebbero ripresi da chi, anche in Italia, sta faticosamente tentando di costruire un’alternativa alla deriva autoritaria e razzista che ha investito buona parte delle forze politiche.