Uno dei punti più rilevanti del progetto di revisione costituzionale – bocciato dagli elettori il 4 dicembre scorso – prevedeva di ridare allo Stato alcune funzioni, che con la riforma del 2001 sono state attribuite alle Regioni o sono state considerate materia concorrente tra Stato e Regioni. Non solo: la revisione voluta dal Governo Renzi confermava e addirittura rafforzava il ruolo “privilegiato” delle cinque Regioni a Statuto Speciale. Di conseguenza, la riforma – se fosse stata confermata dalle urne – avrebbe accentuato ulteriormente le differenze tra le Regioni. Infatti questo è stato uno dei principali motivi di contestazione del progetto di revisione da parte di molti costituzionalisti.
A distanza di pochi mesi, in vista del referendum consultivo che si terrà il prossimo 22 ottobre per chiedere maggiore autonomia per le Regioni Veneto e Lombardia, stupisce il fatto che non pochi esponenti politici favorevoli al progetto di revisione costituzionale Renzi-Boschi adesso si schierino a favore di un referendum che di fatto va in direzione contraria. Pur tenendo conto della disdicevole pratica politica di seguire il vento del momento (salvo poi pentirsene quando il vento cambia verso) senza mai dare spiegazioni del cambiamento di rotta, probabilmente molti degli attuali “autonomisti” erano tali anche in occasione del referendum costituzionale, sostenuto evidentemente per altre ragioni. Ma proprio questa è la prova che non si dovrebbero mai svolgere referendum che accorpino argomenti diversi, poiché così facendo si toglie al cittadino (e anche ai rappresentanti politici) la possibilità di scegliere in modo coerente tra le diverse proposte di riforma, magari non tutte condivisibili.
Con il referendum sull’autonomia i cittadini veneti e lombardi si ritrovano con il medesimo problema: su quali materie si vuole chiedere l’autonomia? La Costituzione ne prevede e consente fino a 23. Conviene elencarle, per avere un’idea precisa della varietà: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale; organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.
Dato che i promotori del referendum si presentano come sostenitori della partecipazione democratica, dovrebbero spiegare perché la consultazione non preveda la possibilità di scegliere per quali delle 23 materie possa essere avanzata una richiesta di maggiore autonomia. O forse dobbiamo pensare che il popolo vada interpellato ma soltanto in modo plebiscitario, con una domanda generica, poiché viene considerato troppo ignorante per decidere sulle singole specifiche questioni che lo riguardano? Una democrazia che davvero voglia mettere al centro la partecipazione dei cittadini deve fornire occasioni e strumenti adeguati. È evidente che il 22 ottobre non sarà così.
A proposito di partecipazione: in Lombardia è prevista la sperimentazione del voto elettronico, voluta in particolare dal Movimento 5 Stelle. Ai seggi l’elettore potrà utilizzare un tablet, sul quale – sotto il quesito referendario – ci sarà la possibilità di scegliere tra un Sì, un No e una Scheda Bianca. Di fatto con questo metodo verrà eliminata la possibilità di votare Scheda Nulla. La questione non è così banale come potrebbe sembrare. La scheda nulla – a parte i casi di errore di compilazione – ha espresso finora un elemento di dissenso nei confronti del sistema o dell’offerta politica del momento. Si tratta dell’elettore che sente il dovere di recarsi alle urne, ma nella scheda non trova nulla che meriti il suo apprezzamento. Proprio il referendum consultivo sull’autonomia potrebbe essere un caso da manuale, poiché diversi elettori potrebbero essere favorevoli alla richiesta di maggior autonomia regionale, ma non per tutte le 23 materie che il quesito implicitamente richiama e quindi promuove. In altre parole, un elettore potrebbe non votare Sì perché non totalmente autonomista, non votare No perché non vuole passare per anti-autonomista, non votare scheda bianca per non delegare la scelta ad altri, non voler disertare le urne ritenendo il voto un dovere civico. Normalmente avrebbe potuto votate scheda nulla per esprimere la propria critica ad una impostazione referendaria inadeguata. Ma il 22 ottobre in Lombardia la possibilità di annullare la scheda verrà eliminata.
Questa limitazione pare in contrasto con l’art. 48 della Costituzione, che prevede che il voto sia “libero e segreto”. E anche sul segreto ci sarebbe da dubitare, poiché l’utilizzo di apparecchi elettronici (che strutturalmente registrano l’orario in cui avviene un’operazione informatica) potrebbe mettere a rischio la segretezza del voto. Sapendo quando esattamente un elettore ha espresso il suo voto, si potrebbe risalire alla sua preferenza. E come possiamo essere sicuri che le informazioni elettroniche non vengano “profilate”, come fanno tutti i grandi operatori commerciali del web? Sia chiaro: in Italia abbiamo più volte assistito a brogli elettorali con il sistema delle schede cartacee. Però è evidente che il sistema elettronico si presta comunque a manipolazioni persino di più ampia portata. Insomma, non tutto ciò che è innovazione è necessariamente migliore. E il voto elettronico non fa eccezione.
Purtroppo, quando si vota per un referendum, non capita quasi mai di rispondere esclusivamente in relazione al merito del quesito. Per esempio, nel referendum costituzionale dello scorso anno è assodato che molti elettori hanno votato Sì o No a Matteo Renzi, anziché esprimersi sul progetto di revisione costituzionale. Anche nel caso del referendum sull’autonomia regionale stiamo già assistendo all’utilizzo strumentale di argomenti che non fanno parte del quesito posto agli elettori. A dare il cattivo esempio è stato il Governatore della Lombardia Roberto Maroni, che ha presentato il referendum come la possibilità di far diventare la Lombardia una Regione a Statuto Speciale come la Sicilia, trattenendo in loco 54 miliardi di euro di tasse che attualmente vengono inviati a Roma. Peccato che per diventare Regione a Statuto Speciale sia necessaria una legge costituzionale che dovrebbe seguire un iter simile a quello del progetto di revisione Renzi-Boschi. Inoltre, attualmente la decisione di quali risorse debbano essere lasciate o destinate alla Lombardia spetta al livello statale (e non regionale): far credere che con il referendum consultivo del 22 ottobre si deciderà della sorte di 54 miliardi di euro è una favola alla quale potrebbero credere soltanto elettori molto disinformati: è a questi che si rivolge Maroni?