Dopo oltre 48 ore dalla sua scomparsa, presumibilmente all’interno dell’aeroporto internazionale del Cairo da cui domenica 10 settembre stava partendo su un volo per Ginevra, l’avvocato Ibrahim Metwally è “riapparso” all’interno degli uffici della procura per la sicurezza dello stato di Al Tagammo’ el Khames, alla periferia del Cairo.
Vivo, è vivo e questa è una buona notizia. Ma le accuse mosse nei suoi confronti sono terribili, quanto ovviamente infondate: tra queste, la cospirazione con entità straniere per sovvertire l’ordine costituzionale, che teoricamente comporta la pena di morte.
Si conferma l’ossessione delle autorità egiziane per le “entità straniere” che minaccerebbero, attraverso quinte colonne, la sicurezza dello stato. A Metwally è stato dapprima impedito di incontrare il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate e involontarie. Poi l’incriminazione.
Metwally non è un sovversivo cospiratore, ma un padre alla ricerca da quattro anni del figlio scomparso e che ha voluto unire le forze con altre famiglie di scomparsi. L’idea che occuparsi di sparizioni (e dunque anche quella di Giulio Regeni), condividere la ricerca dei figli scomparsi con altri genitori e voler raccontare al mondo cosa accade in Egitto costituisca un reato è aberrante. Questo è l’Egitto in cui, tra poche ore, l’Italia rimanderà il suo ambasciatore.