di Francesco Vignarca (*)
Italia-Africa. Ai vertici della spesa militare del Continente nero troviamo non a caso ancora Algeria, Marocco e Nigeria cui si affiancano Sudan, Angola e Tunisia
Nel distorto e problematico dibattito pubblico italiano (e non solo) sull’epocale fenomeno migratorio il tentativo principale della politica è quello di allontanare dalla vista dell’elettorato i problemi e le responsabilità.
Nelle poche occasioni in cui si è allargato lo sguardo verso i luoghi di provenienza delle migrazioni (in particolare penso all’Africa) lo si fa richiamando un retorico e qualunquista «aiuto a casa loro» che non ha nulla di concreto o fattivo.
LA ORMAI VECCHIE promesse, sottoscritte a livello internazionale anche dall’Italia, di destinare almeno lo 0,7% del Pil all’aiuto pubblico allo sviluppo (diretto, indiretto e multilaterale) sono rimaste lettera morta. Nel 2015 l’Italia, pur con un trend in crescita, ha raggiunto solo lo 0,22% del Pil e una buona fetta dei quasi 4 miliardi impiegati è comunque rimasta nei nostri confini proprio per gestire il fenomeno migratorio.
INVECE I GOVERNI degli ultimi anni sono stati molto attivi nel far diventare l’Africa un terminale per i nostri affari, in particolare per quelli armati. Nei primi 25 anni di vigenza della legge 185/90 l’Africa subsahariana ha ricevuto 1,3 miliardi di euro di autorizzazioni armate, pari al 2,4% del totale. Occorre poi aggiungere le cifre ancora più alte relative ai paesi della sponda Sud del Mediterraneo: la sola Algeria in 25 anni ha ricevuto autorizzazioni per 1659 milioni di euro. A livello globale l’Africa si attesta sul 9% delle importazioni mondiali annuali di armi sempre con Algeria in testa (il 46% continentale nell’ultimo quinquennio e paese nella «Top5» mondiale complessiva) seguita da Marocco e Nigeria. Il 35% delle importazioni militare africane giunge al di sotto del Sahara, con principali venditori Russia, Cina, Stati Uniti e Francia. Un mercato trainato dalla spesa militare del continente, nel 2016 a poco meno di 38 miliardi di dollari e aumentata del 48% in un decennio nonostante una leggera decrescita recente. Ai vertici di spesa militare troviamo ancora Algeria, Marocco e Nigeria cui si affiancano Sudan, Angola e Tunisia.
IL TENTATIVO dei nostri governi recenti è stato quello di recuperare posizioni in un mercato che (secondo il MAECI ovvero il ministero Affari Esteri e cooperazione Internazionale) è stato «generalmente marginale per le nostre esportazioni di materiali per la difesa, sia a causa delle limitate disponibilità economiche dei paesi dell’Africa Sub-Sahariana, sia in ragione delle restrizioni imposte da situazioni di latenti conflittualità ed instabilità interne e regionali»
ESEMPIO MASSIMO di questa strategia il tour della portaerei Cavour tra novembre 2013 e aprile 2014. Un viaggio che la Difesa ha cercato anche di «vendere» come umanitario o legato ad operazioni anti-pirateria e che invece si è concretizzato in un’enorme fiera (e spot) per l’industria militare italiana. Ben presente con i suoi stand nei ponti della nave ammiraglia della Marina, che non si sarebbe potuta nemmeno muovere senza la ricca sponsorizzazione dell’industria bellica, visti gli alti costi operativi. Dopo le prime tappe in Medio Oriente il viaggio del «Sistema Paese in movimento» (questa la denominazione ufficiale) ha toccato Kenia, Madagascar, Mozambico, Sud Africa, Angola, Congo, Nigeria, Ghana, Senegal, Marocco e Algeria. Sollevando subito le proteste del mondo disarmista: si trattava dei paesi a più alta spesa militare continentale, cinque dei quali considerati «regime autoritario» dal Democracy Index dell’Economist mentre sette registravano basso «indice di sviluppo umano» con posizioni tutte al di sotto del 142esimo posto nella lista elaborata da Undp (United Nations Development Programme).
I RISULTATI, per l’industria militare, non si sono fatti attendere e nel 2016 sono state autorizzate vendite verso Angola, Congo, Kenya, Sud Africa, Algeria e Marocco (tra i paesi visitati) ma anche verso Ciad, Mali, Namibia ed Etiopia (paese in confitto costante con l’Eritrea). «Il caso più evidente di questa strategia è l’Angola – sottolinea Giorgio Beretta analista di Opal Brescia – un paese a cui, così come al Congo del resto, non avevamo mai venduto armi dalla 185/90 in poi e che invece è destinatario nel 2016 di autorizzazioni per quasi 90 milioni di euro. Ma i contratti già firmati, secondo notizie diffuse dalle stesse industrie di armi, potrebbero aver già superato i 200 milioni complessivi».
GIÀ A MARGINE del Tour africano della Cavour erano circolate voci di vendita della vecchia portaelicotteri Garibaldi (anche per fare spazio alla nuova portaerei Trieste poi successivamente finanziata) proprio all’Angola. Vendita di usato non andata in porto da un lato per i problemi finanziari causati dal crollo dei prezzi petroliferi, dall’altro per il cambio di esecutivo che impedì all’allora Ministro della Difesa Mario Mauro di recarsi come previsto a Luanda (con governo angolano infastidito).
POCO MALE, perché la nuova inquilina di via XX Settembre Roberta Pinotti ha subito cercato di riparare: l’allora Ministro della Difesa e attuale Presidente Joao Lourenço è stato tra i primi ad essere ricevuto a Roma, replicando il viaggio anche nel 2016, mentre la stessa Pinotti si è recata a Luanda nel settembre 2015. Sulla scia della visita dell’anno prima di Matteo Renzi, definita come epocale e propedeutica ad una nuova stagione di rapporti (economici e di cooperazione allo sviluppo) con i paesi africani. Ma che pare aver soprattutto dato il via a nuovi affari di natura militare.
MOLTI RITENGONO questi dati una colpa delle dirigenze politiche africane, che preferiscono investire gran parte dei bilanci statali in armi ed eserciti anche per mantenere le proprie posizioni di comando. Ma se dall’Italia sai che la situazione è questa e continui imperterrito a siglare contratti puoi essere definito solo come complice. A casa loro.
(*) pubblicato anche su «il manifesto» del 3 settembre.