Francesco Di Donna, Coordinatore Medico per Medici Senza Frontiere in Italia, era in Piazza Indipendenza la mattina delle cariche contro i rifugiati. Ecco la sua testimonianza.
Circa dieci anni fa, quando ho iniziato a lavorare con Medici Senza Frontiere, non avrei mai creduto di ritrovarmi in una situazione del genere, a dover curare dei civili feriti in seguito ad azioni violente da parte delle forze dell’ordine, proprio nel mio paese, a pochi metri dall’ufficio centrale dell’organizzazione per cui lavoro.
Fin dai primi giorni dello sgombero, prima di quella mattina di giovedì 24 agosto, in quanto coordinatore medico per MSF in Italia ero andato più volte a piazza Indipendenza, per monitorare la situazione e dare sostegno ai miei colleghi, psicologi e mediatori culturali, impegnati in attività di supporto psico-sociale per le persone che erano state appena sgomberate dal palazzo occupato dove vivevano ormai da diversi anni. Dove, tra le tante difficoltà che possono caratterizzare un contesto così precario, avevano provato a costruire un posto da poter chiamare casa e una vita in Italia.
Ma quella mattina, in poche ore la situazione è degenerata in una vera e propria “ escalation di insicurezza”, come in linguaggio tecnico chiamiamo questo tipo di episodi in contesti molto lontani dal nostro, in Africa o in Medio Oriente, dove ho lavorato come operatore umanitario per MSF.
Quella mattina, in pochi attimi mi sono ritrovato a dover ricoprire il ruolo di infermiere, proprio come quando vado in missione.
E come quando vado in missione, ho curato feriti, chi con fratture, chi con lacerazioni, causate da violenza e da tensioni a seguito a scontri violenti, come in quei paesi dove regnano l’insicurezza e la guerra.
E come quando vado in missione, mi sono ritrovato da solo insieme a un mio collega medico a dover assistere queste persone, a dover aspettare che arrivasse l’ambulanza, come in quei paesi dove mancano strutture ospedaliere e personale medico e come MSF siamo costretti a intervenire.
E come quando vado in missione, le persone da curare sono civili, in maggioranza donne, più vulnerabili ed più facilmente esposte a violenze.
Però qui non siamo in missione, non siamo in guerra, qui ci sono strutture mediche e leggi che dovrebbero impedire episodi di violenza contro le donne e i più deboli. Qui siamo in Italia, a Roma, a Piazza Indipendenza. In un paese che si considera civile e democratico.