Dal Congo…
Il ruolo delle multinazionali costituisce uno degli aspetti ricorrenti nello straordinario documentario Das Congo Tribunal (The Congo Tribunal) del regista svizzero Milo Rau. La lunga esperienza teatrale di Milo Rau incide fortemente e profondamente nella costruzione dell’ambiente nel quale si svolge tutto il film: un tribunale internazionale nel quale sfilano tutti i protagonisti di una guerra che in 20 anni ha prodotto sei milioni di morti. Un conflitto che ha le sue ragioni nelle ricchezze custodite nel sottosuolo del paese: coltan e cassiterite che stanno alla base dell’industria hightech mondiale; un conflitto che rappresenta un esempio di come evolve il colonialismo nell’era della globalizzazione. In tribunale si susseguono gli interventi e i contradditori tra i minatori locali estromessi dalle grandi compagnie minerarie, i contadini privati della propria terra, i civili massacrati dalle bande armate attive nella regione, i vertici del governo nazionale e regionale e i rappresentanti delle multinazionali. Emergono le connivenze politico/affaristiche, l’indifferenza/immobilismo delle istituzioni internazionali, l’importanza del controllo della terra e dell’acqua…
Il film non arriva sempre ad individuare su ogni aspetto i responsabili, talvolta lascia allo spettatore il compito di farsi un’idea e di trarre le proprie conclusioni e questo non sempre è negativo. D’altra parte, cambiano in parte i protagonisti stranieri, ma la verità resta quella affermata da Patrice Lumumba nel suo discorso per l’indipendenza del 1960: “Il nocciolo del problema sta nel fatto che gli imperialisti vogliono adoperare le ricchezze del nostro paese e continuare a sfruttare il nostro popolo”. Da allora non sono cambiate molte cose.
…. al Myanmar
Il Myanmar è stato al centro di due pellicole che hanno messo in contatto il grande pubblico del festival con aspetti particolari della Birmania per lo più sconosciuti; di quel paese infatti poco si sa e quasi solo in relazione alla lotta contro il regime militare condotta tra l’altro da Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace nel 1991 e oggi Consigliere di Stato. Le Venerable W., una produzione francese del regista Barbet Schroeder, racconta in modo estremamente documentato la storia del venerabile Wirathu, monaco buddista, leader nazionalista e fautore di un’islamofobia radicale che ha condotto in alcune regioni del paese alla distruzione di interi villaggi abitati da mussulmani e alla fuga di migliaia di persone nel vicino Bangladesh. Ascoltare le predicazioni di odio e razzismo contro i fedeli mussulmani in un’epoca storica nella quale siamo soliti ascoltare dichiarazioni di morte in nome dell’Islam rivolte da parte di gruppi integralisti agli infedeli, ai cristiani, ha prodotto un effetto choc nel numerosissimo pubblico presente alla proiezione.
Eppure come dovremmo ben sapere dallo studio della nostra Storia, il razzismo e l’odio per chi professa un’altra religione hanno albergato ovunque e non sono un’esclusiva di un singolo credo. Certamente veder declamati tali valori da un esponente di una dottrina filosofica/religione conosciuta ovunque per il suo richiamo alla tolleranza è ancora più sorprendente; ovviamente anche in questo caso è bene evitare ogni generalizzazione e ricordare che anche nel buddismo vi sono diverse scuole.
Non meno scioccante è stato apprendere come la stessa leader Aung San Suu Kyi sia stata accusata in una lettera pubblica, firmata da personalità di rilievo internazionale, di non opporsi con la determinazione necessaria alla predicazione dell’odio religioso. Come dire che chi per anni si è battuto per il rispetto dei diritti umani preferisce, giunto ora al potere, chiudere un occhio sulle violenze contro i mussulmani in un paese dove il 90% della popolazione si professa buddista. Meglio non rischiare di perdere il consenso conquistato con tanti anni di lotte in nome dei diritti universali; meglio mettere tra parentesi l’aggettivo “universali”, ma i diritti o sono universali, o sono per tutti, o non sono diritti.
Blood Amber del regista Lee Yong Chao, nato in Myanmar e cresciuto a Taiwan, è un racconto minuzioso della vita di giovani uomini che trascorrono le loro giornate e le loro notti a scavare miniere alla ricerca dell’ambra, minerale estremamente prezioso che dovrebbe fornire loro l’opportunità di uscire dalla miseria. Sullo sfondo lo scontro tra la Kachin Indipendence Army (KIA) che opera nel nord della Birmania e l’esercito nazionale. Un documentario capace non solo di descrivere un lavoro che si realizza in condizioni disumane in una natura affascinante, ma anche di restituire in presa diretta i sentimenti, le speranza e le paure dei protagonisti. Unico neo, non del tutto insignificante, l’assenza di un qualche approfondimento sul mercato internazionale dell’ambra che dal lavoro di questi disperati trae profitti immensi. La spiegazione di questa assenza e di un qualunque accenno a possibili conflitti tra il proprietario della miniera e i lavoratori sta forse nella risposta fornita dal regista a chi gli ha chiesto qual è stato il criterio che ha condotto a scegliere quella miniera piuttosto che un’altra: il buon rapporto tra il regista e il proprietario della miniera. Fatta questa precisazione, è un film che consiglio di vedere per l’assoluto realismo con il quale viene descritta l’esistenza di questi lavoratori, le cui condizioni di vita non rappresentano purtroppo un caso isolato.