Il termometro di questa calda estate certifica con le sue misure che il mondo continua ad avere la febbre alta. Anzi, la temperatura sembra aumentare sempre di più. Non ci riferiamo ai cambiamenti climatici, ma all’incandescenza del quadro politico internazionale. Dall’ombrellone della spiaggia, anche da noi i vacanzieri sono stati distratti – e a volte costretti a fuggire – dagli incendi circostanti: questa può essere una metafora dell’odierna crisi della globalizzazione, quando focolai di guerra e di tensione ci lambiscono, con il concreto rischio di travolgerci. Siria, Yemen, Corea del Nord, Venezuela, Ucraina. L’incendio si propaga. Lo seguiamo distrattamente, finché capita qualche evento che ci colpisce in maniera diretta e che, con la violenza della tragedia, ci riporta alla dura realtà, com’è avvenuto dopo l’attentato di Barcellona. Allora siamo sgomenti. Almeno per alcuni giorni.

Guardando dall’altra parte del Mediterraneo, sempre a causa di problemi che ci riguardano da vicino: la nostra attenzione si rivolge alla Libia, teatro di lotte tra opposte fazioni, paese “fallito” che testimonia il nostro fallimento. La situazione libica – decisiva anche per i flussi migratori – denota l’incapacità europea (o meglio dei singoli Stati europei, a cominciare dalla Francia) di superare gli schemi neo coloniali oggi dominanti, pur se ammantati da motivazioni democratiche e umanitarie. Ma la democrazia e i diritti umani non si instaurano abbattendo con la guerra un Gheddafi o un Saddam, tiranni con cui non riuscivamo più a fare affari. L’alternativa tra dittatura (degli altri) e democrazia (la nostra) conduce in realtà in un’unica direzione: il caos, ossia il predominio del più forte.

Oltrepassando il deserto del Sahara, in questi giorni due Stati africani sono andati a elezioni. Con esiti molto diversi. Il 4 agosto si è votato in Ruanda per scegliere il “nuovo” presidente. Paul Kagame ha ottenuto il 98,79% dei voti. Neanche nello stereotipo della Bulgaria sovietica accadeva questo. Chi è Kagame? Comandante del Fronte Patriottico Ruandese, l’esercito che mise fine al genocidio del 1994, dal 2000 è presidente del Ruanda. Confermato nel 2003, riconfermato nel 2010, trionfa anche oggi dopo aver cambiato la Costituzione nel 2015, allo scopo di rimanere presidente per altri due decenni. Va da sé intuire come il processo democratico ruandese non sia molto regolare e trasparente, ma Kagame continua imperterrito con il suo pugno duro, che accompagna l’autoritarismo e la repressione a una notevole crescita economica. I disordini interni sono contenuti, l’ordine regna, la povertà diminuisce: cosa c’è di meglio per un popolo che in passato è stato massacrato? Teniamoci Kagame, dunque.

Nel confinante Kenya si è invece votato l’8 agosto. Sicuramente il Kenya è un paese più sviluppato e democratico del Ruanda. C’erano due sfidanti per la Presidenza – gli stessi di cinque anni fa contrapposti a livello etnico più che programmatico – , che si sono divisi quasi in parti uguali il consenso (il 54% al vittorioso Kenyatta e il 46% allo sconfitto Odinga). Le elezioni, seguite con attenzione dai media di tutto il mondo, sono state “certificate” come regolari dalla comunità internazionale. Esito? Odinga non ha riconosciuto i risultati e, come si temeva alla vigilia, numerose vittime sono cadute in scontri tra le fazioni (che diventano pure scontri etnici): il paese rischia il caos. Lo stallo ha generato grandi preoccupazioni per il mondo economico e per la Chiesa cattolica.Per fortuna, nei giorni successivi, Odinga non ha aizzato i suoi sostenitori in una protesta violenta ma, pur invitando alla “disobbedienza civile”, ha fatto ricorso alla Corte SupremaCosì la tensione è calata, ma il clima non è affatto pacificato.

Sono conseguenze inevitabili per una democrazia giovane che deve ancora trovare la sua strada? Non è meglio invece garantire la stabilità e lo sviluppo anche a discapito dei nostri modelli basati sulle garanzie istituzionali, sullo stato di diritto e sul rispetto della persona? È preferibile il Kenya o il Ruanda?

Giudicare da lontano sarebbe ipocrita o velleitario. Come quel “aiutiamoli a casa loro” che ormai è stato sdoganato anche a sinistra. Eppure l’Africa è sempre più vicina. E non solo per essere quel continente alla deriva capace soltanto di esportare disperati, ma anche per cercare di incamminarsi, con mille contraddizioni, sulla via di un possibile sviluppo. Ancora una volta è fuorviante l’alternativa tra democrazia e dittatura. Nel mezzo c’è l’esistenza reale, la politica concreta, fatta di carne e sangue, per la quale ne va davvero della vita. Si potrebbero fare anche altri esempi, come in Angola, dove si vota tra due giorni e quasi sicuramente andrà al potere il delfino del presidente José Eduardo dos Santos – 75 anni e da 37 alla guida della ex colonia portoghese.

Sono lezioni che abbiamo dimenticato. Crediamo di aver in tasca la democrazia e vogliamo “esportarla” agli altri, mentre ci sta scivolando dalle mani. Non basta essere chiamati alle urne alle scadenze elettorali. La democrazia si fonda su un tessuto sociale ben definito: dove regna la disuguaglianza, dove i cittadini si sentono esclusi dal processo decisionale, ecco che lo Stato democratico scricchiola. Dove i gruppi di minoranza (qui da noi sono i migranti) vengono emarginati e dileggiati – se non descritti senza mezzi termini come nemici – la violenza può scoppiare in qualsiasi momento. Dove i diritti umani sono messi in discussione o sospesi “per gli altri” si apre una falla in grado di affondare l’intera nave, compresa la prima classe. Per questo è determinante per il nostro futuro sostenere alcune precise istanze (non vorrei chiamarle “valori”) che riescono ad avere una visione globale. Perché, oggi più di ieri, nessuno si può salvare da solo.

 

Piergiorgio Cattani