Lo scorso 2 giugno quasi 250 abitazioni del popolo Jumma, gli abitanti indigeni delle Colline Chittagong del Bangladesh, sono state rase al suolo dal fuoco appiccato da alcuni coloni bengalesi dopo il ritrovamento del corpo senza vita di un motociclista bengalese, Nurul Islam Nayon. La popolazione locale ha accusato gli Jumma del decesso. L’incendio che ha causato la morte di un’anziana donna che è rimasta intrappolata in casa per Survival International è avvenuto mentre “l’esercito e la polizia sono rimasti a guardare e non sono intervenuti quando i coloni che protestavano contro la morte del signor Nayon si sono scatenati, dando fuoco alle case degli Jumma e ai negozi in tre diversi villaggi”.
Il governo del Bangladesh ha trasferito per più di 60 anni coloni bengalesi nelle terre degli Jumma che sono passati dall’essere praticamente i soli abitanti delle Hill Tracts a essere, oggi, una minoranza. Il 4 giugno la polizia e l’esercito hanno violentemente disperso una protesta pacifica degli jumma nata per chiedere che i piromani fossero consegnati alla giustizia. Per questo Survival ha lanciato un appello perché i responsabili dell’incendio e della morte di Nurul Islam Nayon siano consegnati alla giustizia ed ha sollecitato il governo del Bangladesh “affinché indaghi con urgenza sul ruolo delle forze di sicurezza durante l’attacco ai tre villaggi e durante la conseguente protesta pacifica”.
Ma la violazione dei diritti dei popoli indigeni non è una prerogativa solo del Bangladesh. Un’inchiesta istituita dai parlamentari brasiliani che rappresentano gli interessi di grandi allevatori e agricoltori ha appena pubblicato un rapporto in cui si chiede la chiusura del Dipartimento agli Affari Indiani (Funai) perché è ormai diventato “ostaggio di interessi esterni” e chiede che decine dei suoi funzionari vengano perseguiti per aver appoggiato quelle che definisce “demarcazioni illegali dei territori indigeni”. Ad oggi il Funai ha già subito grossi tagli al suo bilancio, che hanno portato alla riduzione di molte delle squadre responsabili della protezione dei territori delle tribù incontattate lasciando alcuni dei popoli più vulnerabili del pianeta alle mercé di taglialegna e sicari armati e senza scrupoli. “Negli ultimi cinque mesi, il Funai ha cambiato tre presidenti. All’inizio di questo mese il secondo presidente, Antonio Costa, è stato destituito” per aver criticato il Presidente Temer e Osmar Serraglio, il Ministro della Giustizia, ha ricordato Survival, affermando che “non solo vogliono eliminare il Funai, ma anche le politiche pubbliche come la demarcazione della terra [indigena]”. Le conclusioni del rapporto sono state accolte con indignazione e incredulità sia in Brasile che fuori. “Uccidere il Funai equivale a uccidere noi, i popoli indigeni – ha affermato Francisco Runja, un portavoce Kaingang – è un’istituzione cruciale per noi, per la nostra sopravvivenza, per la nostra resistenza, ed è una garanzia per la demarcazione dei nostri territori ancestrali.” Mentre per lo sciamano e portavoce Yanomami Davi Kopenawa “Il Funai è rotto… è già morto. Lo hanno ucciso. Esiste solo di nome. Un bel nome, ma non ha più il potere di aiutarci”.
Ma il presente ed il futuro dei popoli indigeni non è costellato solo di brutte notizie. Anni di lotte e rivendicazione dei propri diritti hanno portato in questi mesi anche ad importanti successi. Un caso esemplare è quello dei Boscimani che lo scorso 11 maggio hanno ricordato il ventesimo anniversario dallo sgombero dalle loro terre, nel cuore della Central Kalahari Game Reserve (CKGR), al campo di reinsediamento di New Xade, rinominato dai Boscimani “luogo di morte”. Fu la prima di un’ondata di sfratti effettuati dal governo del Botswana, determinato ad aprire le loro terre ancestrali all’estrazione dei diamanti e al turismo. Per molti osservatori, il trattamento disumano che il governo ha riservato ai Boscimani ricorda il regime di apartheid del vicino Sud Africa, dove le comunità nere venivano sistematicamente sfrattate dalle loro case per essere spostate in baracche sovraffollate alle periferie delle città. Nel 2006, però, i Boscimani che furono sfrattati dalla riserva nel 2002 hanno vinto uno storico processo presso la Corte Suprema del Botswana, grazie anche al sostegno di Survival International, che ha stabilito che questo popolo era stato sfrattato illegalmente e aveva il diritto di vivere e cacciare nella riserva. “Finalmente centinaia di Boscimani stanno lasciando gli odiati campi di reinsediamento e ritornano a casa” ha spiegato Survival, e anche se non sono rare le violenze e le torture da parte dei guardaparco quando esercitano il loro diritto alla caccia, “oggi è chiaro che i Boscimani non sono bracconieri, ma cacciano per sopravvivere, senza minacciare in alcun modo la fauna locale”.
All’inizio di giugno, con una decisione senza precedenti, anche la Corte Africana per i diritti dell’uomo ha stabilito che il governo del Kenya ha violato i diritti degli Ogiek, una tribù di cacciatori-raccoglitori che vive nella Foresta Mau, nella Rift Valley in Kenya, sfrattandoli ripetutamente dalle loro terre ancestrali. Il tribunale, dopo che gli Ogiek avevano citato in giudizio il governo per la violazione del loro diritto alla vita, alla terra, alla proprietà, allo sviluppo e alla non-discriminazione, ha riscontrato che il Governo ha violato sette articoli della Carta Africana e ha ordinato di prendere “tutte le misure del caso” per rimediare alla violazione. Il caso era stato sollevato per la prima volta otto anni fa dall’Ogiek Peoples Development Program (OPDP), il Centro per lo Sviluppo dei Diritti delle Minoranze (CEMIRIDE) e dal Gruppo Internazionale per i Diritti delle Minoranze. “Per gli Ogiek, è una svolta storica. La questione dei loro diritti territoriali è stata finalmente affrontata e il caso gli ha dato più forza. Il governo ha ora l’opportunità di restituire loro la Foresta di Mau e la loro dignità di popolo Ogiek” ha dichiarato Daniel Kobei, direttore dell’OPDP. La speranza è che quest’ultima sentenza costituisca un importante precedente per altri casi legati ai diritti territoriali indigeni, non solo in Africa.
Alessandro Graziadei