L’esperienza della fame e della sete, l’esperienza del freddo e del buio. Ma l’acqua è anche il biblico diluvio universale, e il fuoco l’universale conflagrazione stoica. La pioggia che tutto sommerge, l’incendio che tutto distrugge.
Realtà concretissime e sfuggenti, senza forma ovvero di forme infinite: l’acqua che si fa ghiaccio o vapore o che liquida mutua la forma di ciò che ne è recipiente; il fuoco che è lingue salienti, e fumo in alto e cenere in basso, che insieme divora e svanisce. E simboli archetipici quant’altri mai.
Senza acqua – che nutre e trascina, che lava e che scorre – non vi è mondo vivente; senza fuoco – energia, mutamento, distruzione, ricambio – non vi è civiltà umana.
Nel segno dell’acqua e del fuoco la catastrofe dei mutamenti climatici provocati dall’uomo – dallo sviluppo industrialista e dall’ideologia della crescita illimitata e dell’illimitato consumo – ci raggiunge ed attosca e terrorizza.
Parlare oggi di acqua e di fuoco è questione politica e morale, non solo economica ed ecologica; ma poiché nell’etimo ecologia significa scienza e discorso della casa comune, ed economia regola e responsabilità della casa comune -, è anche pertanto questione di diritto, e di legislazione e di giurisprudenza, e di sapere, la scienza che anche dev’essere saviezza, la sapienza che anche saggezza dev’essere.
Il mondo vivente non è un magazzino né un immondezzaio.
E gli esseri viventi non sono merci né scarti.
Costitutivo dell’essere esseri intelligenti è la responsabilità per il bene comune.
Sapere di essere tutti uniti da un unico destino di vita e di morte in almeno due sensi: nel senso biologico del nascere e del morire come esperienza individuale universalmente esperita; nel senso culturale dell’esser partecipi di una comunità che tutti gli esseri umani – passati, presenti e venturi – comprende, e dell’esser quindi vincolati al dovere di far quanto è in proprio potere perché l’umanità non scompaia anzitempo nel nulla.
Responsabili quindi del bene comune delle generazioni tutte; responsabili quindi dell’intero mondo vivente di cui l’umanità è parte e senza del quale l’umanità stessa si estingue. “I care”, “mi sta a cuore”, era scritto su di una parete della scuola di Barbiana, che era centro e cuore pulsante del mondo (ma ogni luogo, spiegava Alce Nero, è il centro del mondo).
Occorre cessare di uccidere, cessare di distruggere, salvare le vite, prendersi cura di sé, degli altri, del mondo.
E’ palese che un modello di società fondato sull’universale sfruttamento e sull’universa rapina, sulla crescita illimitata della produzione di manufatti e dei consumi – e conseguentemente anche dei rifiuti -, cozza contro i limiti della natura, cozza contro la capacità di carico della biosfera, distrugge il mondo vivente e l’umanità.
E’ palese che un modello relazionale fondato sulla sopraffazione e sull’asservimento dell’altro riduce il mondo a una totale prigione, a una guerra di tutti contro tutti, fino alla barbarie più estrema, fino alla fine dell’umanità come valore morale e come esperienza storica.
E’ palese che il vertiginoso sviluppo tecnologico degli ultimi secoli e massime degli ultimi decenni pone l’umanità dinanzi a un bivio: se si prosegue lungo la via della violenza sia intraspecifica che contro il resto del mondo vivente, da noi stessi ci condanneremo a sofferenze crescenti e inaudite fino all’estinzione dell’umana civiltà, dell’umana vicenda. Se si sceglie invece subito la via della nonviolenza una possibilità resta aperta, una speranza di salvezza comune.
Alcune scelte politiche sono quindi urgenti, non più differibili.
Adottare in ogni azione il criterio della responsabilità per l’umanità intera incluse le generazioni future, adottare in ogni azione il criterio della responsabilità per l’intero mondo vivente.
Riconoscere che siamo una sola umanità, cessare quindi tutte le guerre e adottare il principio della fraternità e sororità universale.
Dismettere ogni produzione e consumo palesemente insostenibili, porre ragionevoli limiti alle attività consentite, condividere i beni.
Ripensare il lavoro come diritto e come dovere, ripensare il lavoro come mediazione tra umanità e natura, ripensare il lavoro come produzione e riproduzione sociale: ponendo un rigido limite all’appropriazione privata, vincolando al bene comune ogni intrapresa economica, garantendo ad ogni persona le risorse per una vita degna, riducendo il tempo di lavoro per realizzare la piena occupazione.
Risanare i guasti prodotti, prima che sia troppo tardi.
Riconoscere ad ogni essere umano il diritto alla vita, alla dignità, alla solidarietà, alla condivisione.
Per fermare gli incendi non basta arrestare il singolo idiota o criminale che appicca materialmente il fuoco alle foreste, occorre una politica di difesa attiva della natura che ogni essere umano chiami ad essere custode del mondo vivente, una politica di pace tra umanità e biosfera.
Per garantire acqua potabile all’umanità intera occorre fermare gli inquinatori – che non sono miseri fattucchieri, ma i maggiori potentati economici e politici del mondo, e la microfisicamente, pervasivamente diffusa rete del regime della corruzione e della polluzione -; occorre una politica di giustizia e di solidarietà che raggiunga e riconosca come esistenze dotate di intrinseco valore e quindi come soggetti titolari di diritti – il diritto alla vita, in primis et ante omnia – non solo tutti gli esseri umani, ma l’intero mondo vivente nella varietà e nell’equilibrio delle sue concrete forme.
Occorre una politica nonviolenta.
Occorre una politica del bene comune.
Occorre la politica dell’umanità.
Il “Centro di ricerca per la pace e i diritti umani” di Viterbo