Diciassette morti, quaranta feriti, e nessuno con la matitina spezzata nel taschino. Nessuno con la bandierina del paese colpito come sfondo del proprio profilo social. Nessuno con l’hashtag, anche se patetico. Nessuna insulsa dimostrazione di solidarietà, di quelle che costano un clic. Improvvisa sobrietà? No, semplice indifferenza. L’indifferenza di chi non vede i morti di Teheran come morti su cui vale la pena esprimere un cordoglio, benché vittime dello stesso terrorismo che colpisce Londra, Berlino e Parigi. L’indifferenza di chi non crede che i morti di Teheran meritino nemmeno il conformismo da social-network. E infatti quei morti sono morti sbagliati, anticonformisti, contraddittori. Sono morti musulmani.
Sono morti che ci dicono che l’Iran non è uno stato terrorista, ma che subisce la violenza del terrorismo. Sono morti che ci dicono che i musulmani non sono nemici, ma che i nemici sono coloro che strumentalizzano la religione per finalità politiche. Sono morti che ci agitano un’amara verità: il nostro universale sentimento di solidarietà, non è poi così universale. La nostra empatia ha precisi limiti geografici e culturali. Ma come si può provare empatia per uno “stato canaglia”? E invece no, l’Iran non è uno stato canaglia. L’Iran non finanzia il terrorismo internazionale. Ma lo subisce, come è tristemente ovvio che sia per un paese in prima linea contro il sedicente Stato Islamico, impegnato militarmente più di ogni altro campione della libertà occidentale. Un impegno di cui non si parla mai, perché l’Iran è cattivo e non può far parte dei “nostri” eroi.
Come non sono nostri i suoi morti, perché sono morti musulmani, e non sono nostri i morti di Baghdad e di Kabul, migliaia senza nome, in pezzi per le strade, dilaniati dall’ennesimo attentato suicida di cui i nostri illuminati giornali nemmeno danno notizia. E così la bella società civile, quella che sono tutti “sciarlì“, quella che ama specchiarsi nei suoi profili digitali, non versa la pavloviana lacrimuccia. Le bombe fanno piangere solo se esplodono nelle democrazie occidentali, evidentemente.
Diciassette morti, quaranta feriti, e la coscienza europea – sublime, illuminata, superiore – non registra sussulti. Almeno fino alla prossima deflagrazione in piazza, quando il sismografo della nostra anima si agiterà quel tanto che serve a farsi belli, e un hashtag laverà via ogni male.