Qui di seguito la mia intervista con l’autore del Libro “Il muro della Hasbarà. Il giornalismo embedded de «La Stampa» in Palestina“, Amedeo Rossi con il quale ho parlato degli obiettivi del suo libro e della necessità e delle modalità in cui vivere un atteggiamento di vita antisionista e anti-imperialista.
Perché è fondamentale parlare apertamente dell’HASBARA in Italia?
Credo che uno dei maggiori successi del movimento sionista e dello Stato di Israele sia la capacità di aver reso predominante, se non l’unica legittima, la propria narrazione del conflitto con i palestinesi e con il mondo arabo. L’immagine del piccolo Stato delle vittime di ogni persecuzione che resiste contro le spietate orde di nemici barbari ed assetati di sangue ebreo, nuovi adepti dell’antisemitismo nazista, è stata trasmessa dai mezzi di comunicazione del mondo occidentale ed è entrata nella visione più comune del conflitto. L’altro fulcro di questa propaganda è rappresentato dalla definizione di “unica democrazia del Medio oriente”, ancora più efficace con il diffondersi del fondamentalismo jihadista: Israele sarebbe in prima linea nella lotta per difendere la cultura occidentale dalla barbarie orientale. Tutto questo è servito a nascondere quelle che sono invece le caratteristiche di un movimento e di uno Stato colonialisti e razzisti, che hanno predicato e praticato, e continuano a praticare, la pulizia etnica come parte fondamentale della costruzione di una Nazione esclusivamente ebraica, in cui le componenti non ebraiche sono sempre meno tollerante.
Che cosa è l’HASBARA e come si manifesta nei media?
Il termine ebraico “hasbara” ha vari significati, che possono andare da “versione dei fatti” al più esplicito “propaganda”. In pratica si tratta di un sistema piuttosto articolato e sofisticato che permette allo Stato di Israele di influenzare, in modo a volte implicito, altre volte più esplicito, il lavoro dei giornalisti che si trovano in Israele/Palestina. Attraverso gli inviati dei vari mezzi di informazione, che spesso si trovano in territorio israeliano e raramente si spostano nei territori occupati, anche per problemi logistici, questa versione dei fatti arriva al pubblico dei Paesi occidentali e ne condiziona la visione degli avvenimenti. Un esempio: quando avviene un omicidio particolarmente efferato perpetrato dalle forze di sicurezza o dai coloni israeliani, anche quando ci sono prove schiaccianti, il portavoce del governo e/o dell’esercito nega sistematicamente ogni responsabilità. Questa dichiarazione viene ripresa dai media e poi il fatto viene dimenticato. Al contrario, quando sono i palestinesi a commettere un attentato, non solo questo fatto ottiene uno spazio molto maggiore, ma, non essendo mai contestualizzato, viene più o meno esplicitamente spiegato come un episodio di antisemitismo, di odio nei confronti degli ebrei in quanto tali e non in quanto manifestazione di resistenza contro l’occupante.
Quali sono gli obiettivi fondamentali dello studio che ha intrapreso sul tema?
Leggendo i quotidiani, in particolare “La Stampa” di Torino, mi sono reso conto di quanto i meccanismi già citati e molti altri che ho analizzato nel libro siano presenti nell’informazione sul conflitto e come vengano veicolati in modo molto spesso implicito. A differenza di mezzi di comunicazione palesemente di parte (israeliana), “La Stampa” si presenta come un giornale indipendente, che informa in modo oggettivo. Io ho cercato di confrontare cosa e come viene raccontato e cosa viene taciuto dal giornale sul conflitto con altre fonti di informazione, palestinesi o filo-palestinesi, e da organizzazioni indipendenti. Ho fatto anche ampio ricorso a fonti israeliane, sia critiche nei confronti del proprio governo che fonti ufficiali. E’ un lavoro già fatto da altri autori, per esempio da Chomsky sui conflitti in Centro America e su come sono stati raccontati dai media negli USA. Il risultato mi pare piuttosto evidente: la preponderanza della narrazione israeliana è palese e, mi pare, indiscutibile. Si tratta di una denuncia per come l’informazione che arriva ai lettori (e non solo de “La Stampa”: penso che prendendo in considerazione altri mezzi di comunicazione “indipendenti” i risultati non sarebbero molto diversi) sia di parte e dell’importanza di questa parzialità nel modo in cui l’opinione pubblica si forma un’immagine delle vicende in Israele/Palestina.
Andando a cercare la bibliografia internazionale sull’argomento, da analisi fatte in Francia, Gran Bretagna, USA e Spagna ho scoperto che molti dei meccanismi che ho individuato nel mio lavoro di ricerca si ritrovano quasi identici anche in quei Paesi.
Cosa si può fare per contrastare il monopolio dell’informazione aggiogata al carro del sionismo?
Collaboro da qualche anno con un gruppo che, come attività di militanza per la causa palestinese, si dedica alla traduzione in italiano di articoli di giornale pubblicati in Israele o su mezzi di informazione palestinesi, che poi vengono inseriti nel sito Zeitun.info. Questi articoli consentono di avere un’idea molto diversa della situazione rispetto a quello diffuso dai nostri media. Quello dell’informazione è un aspetto cruciale di questa vicenda, forse ancor più che nel caso di altri conflitti, e ritengo che sia molto importante svolgere un’attività di controinformazione. Le forze del campo filo-palestinese sono infinitamente ridotte rispetto alla potenza ed efficacia dell’hasbara israeliana, ma credo che piccole iniziative come questa, unite ad incontri di approfondimento, proiezione di film e documentari, conferenze di esponenti palestinesi e israeliani critici possano avere una certa efficacia.
Come lei è diventato antisionista? È stata una sofferta scelta personale? Oppure un retaggio storico-familiare di una cultura politica in difesa dei popoli oppressi?
L’antisionismo deriva dalla mia formazione ideologica e politica. Mio padre è stato dirigente provinciale del PCI fino al ’64. In casa mia si parlava spesso di politica e circolavano giornali e riviste di sinistra, tra cui mi ricordo in particolare “L’astrolabio”, che si occupava molto di politica internazionale. Di quella formazione familiare mi sono rimasti l’avversione per l’imperialismo, il colonialismo, il nazionalismo, il razzismo, in generale per le ingiustizie. Il sionismo ed Israele rappresentano tutto questo, nella loro storia e nel loro presente. Poi sono della generazione che è passata dai western in cui gli indiani erano i cattivi a quelli in cui sono diventati i buoni, della decolonizzazione e della lotta del Terzo mondo contro neo-colonialismo ed imperialismo, del Vietnam e del Cile, del Che e di Ho Chi Min. E, nonostante le molte delusioni, sono rimasto coerente con quel passato.
Che cosa significa per Lei personalmente la lotta antisionista per l’affermazione dei diritti dei palestinesi?
Per dirla in poche parole: cercare di evitare per quanto possibile che ai palestinesi tocchi la stessa sorte di altri popoli nativi, a cominciare dalle Americhe (mi sono occupato a lungo di America latina) e poi nel resto del mondo. Nel film “Non ci resta che piangere” Benigni e Troisi cercano di evitare la scoperta dell’America per salvare gli indigeni dallo sterminio. Non si può tornare indietro nella storia, ma si può, anzi si deve, evitare che quello che è successo nel passato ad opera dei colonizzatori europei si ripeta ancora, ed oggi questo sta avvenendo in Palestina.
Ci può dire qualcosa su Moni Ovadia che ha accettato di scrivere una prefazione? Le è stato difficile poterlo raggiungere e convincere?
Non è stato difficile contattarlo perché un amico aveva il suo indirizzo mail ed il suo numero di telefono. Non è stato neanche difficile convincerlo: si è detto interessato al libro e disponibile a scrivere una presentazione. Moni è molto sensibile al problema e credo che, in quanto ebreo, sia indignato da quello che viene fatto da Israele anche in suo nome. Il problema è stato che è sempre molto occupato per il suo lavoro e quindi non aveva tempo da dedicare alla lettura ed alla stesura dell’introduzione. Ci sono voluti parecchi mesi, però alla fine è riuscito a scrivere la presentazione ed io ne sono molto contento, sia perché lo stimo sia come artista che come persona, sia perché ritengo che sia molto preparato sul tema e quindi il suo apprezzamento per il mio lavoro mi ha gratificato.