Dopo aver sostenuto per mesi che Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca necessitavano di una “ricapitalizzazione precauzionale”, ovvero che erano banche fondamentalmente “sane”, ma bisognose di un ulteriore supporto, il governo Gentiloni-Padoan ha improvvisamente cambiato idea, dichiarandole fallite e ponendole in liquidazione.
Il Consiglio dei Ministri ha così approvato un decreto legge che prevede l’acquisizione -costo 1 euro- da parte di Intesa Sanpaolo delle due banche venete e il premier Gentiloni ha subito lanciato un accorato appello perché “questa decisione molto importante trovi in Parlamento il sostegno che merita, cioè il più ampio possibile“.
Nel frattempo, Carlo Messina, Amministratore Delegato di Intesa Sanpaolo si mette davanti allo specchio e loda se stesso per aver “messo in sicurezza oltre 50 miliardi di risparmi affidati alle due banche e tutelato 2 milioni di clienti, di cui 200.000 aziende operanti in aree tra le più dinamiche del Paese”. Senza dimenticare giuramenti a ripetizione sulla tutela dei posti di lavoro.
Poteva mancare il sostegno della generosa Unione Europea? Certo che no: l’improvvisamente federalista Margarethe Vestager, Commissaria Ue alla Conocorrenza, considera l’aiuto di Stato “necessario per evitare tensioni economiche nella regione del Veneto”.
Due banche in gravissime difficoltà finanziarie, un colosso bancario le annette, istituzioni italiane ed europee d’accordo: qual è il problema?
Uno solo: il tutto è a carico della collettività, ovvero lo paghiamo tutte e tutti noi.
Il decreto prevede infatti, una spesa immediata da parte dello Stato di 5,2 miliardi per garantire a Intesa Sanpaolo rischio zero su tutta l’operazione e 12 miliardi di garanzie pubbliche sui futuri rischi. In pratica, Intesa Sanpaolo annette, oltre a sportelli e personale (in attesa di, passata la festa, gabbare lo santo) tutti i crediti solvibili, mentre la collettività si accolla i crediti ad alto rischio e quelli inesigibili.
Il tutto finanziato con il decreto approvato fulmineamente dai due rami del Parlamento tra i brindisi delle feste dello scorso Natale: 20 miliardi di garanzie sul salvataggio delle banche da mettere a carico del debito pubblico. Garanzie peraltro già insufficienti, visto che, se a quest’ultima operazione, aggiungiamo quelle relative a Mps da una parte e alla “banda delle quattro” (Etruria, Marche, Cariferrara e Carichieti) dall’altra, siamo già sopra i 30 miliardi.
Eppure “il nostro sistema bancario è solido, privo di rischi e i risparmi della famiglia sono in sicurezza” twittava il 31 ottobre 2014 il ministro dell’Economia Padoan. “C’è una manovra su alcune banche, punto“, ma il sistema “è molto più solido di quello che legittimamente alcuni investitori temono“, rassicurava Renzi in un intervista del 13 dicembre 2015, dopo le prime crepe..
“Affronteremo i problemi legati a casi specifici del nostro sistema bancario, che e’ solido, e sta contribuendo alla ripresa finanziando l’economia“, si arrampicava sugli specchi Gentiloni non più tardi di 6 mesi fa.
Così evidentemente non era, ma le banche, allevate da decenni col principio del “too big to fail” (troppo grosse per fallire) o, come nel caso in oggetto, del “too interconnected to fail” (troppo interconnesse per fallire) sanno di poter superare ogni limite di rischio e ogni disinvoltura nelle proprie operazioni, con la certezza che alla fine il pubblico interverrà. Lo Stato al servizio delle banche è infatti l’unica certezza che consente ai sacerdoti del fondamentalismo di mercato di poter proseguire i loro sermoni sui media mainstream.
Strano il mondo ai tempi del capitalismo finanziarizzato: il debito pubblico, propagandato da governi e tecnocrati come colpa collettiva da espiare e usato come clava per espropriare diritti del lavoro, beni comuni e servizi pubblici, diviene improvvisamente una rosa gentile in soccorso di due banche condotte al fallimento da anni di scelte manageriali fondate su clientelismi e corruzioni e da controlli compiacenti.
Demistificare la narrazione ideologica sul debito e rivendicare una nuova finanza pubblica e sociale, a partire dalla socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti, è forse ciò che manca nell’analisi di chi anche in questo periodo propone giustamente di mettersi in marcia, dal basso e in forma inclusiva, per costruire un’alternativa nel Paese.