La settimana conclusasi con la tornata elettorale dell’11 giugno è stata un vero e proprio crocevia per il Kosovo, segnata non solo dalla campagna elettorale ma da una vera e propria “costellazione” di ricorrenze, importanti per il Kosovo e l’intero post-conflitto balcanico, con alcune date in rapida successione, attraverso le quali, esattamente diciotto anni fa, si delineava il profilo del Kosovo post-bellico e si gettavano le basi della configurazione (e delle contraddizioni) odierne di questa regione.
Il 9 giugno del 1999 veniva siglato l’accordo tecnico militare della NATO tra la KFOR (la forza di inter-posizione dislocata dalla NATO in Kosovo, tuttora presente nella regione) e i governi della Repubblica Federale di Jugoslavia e della Repubblica di Serbia, che di quella “terza” Jugoslavia rappresentava una delle due entità costituenti, l’altra essendo il Montenegro, essendosi, sin dal 1995, dissolta la Jugoslavia federale, pluri-nazionale e socialista, con la guerra di Bosnia Erzegovina (1992-1995) e prima ancora le secessioni e le indipendenze proclamate, sin dal 1991, dalla Slovenia, dalla Croazia e dalla Macedonia.
L’accordo tecnico, che costituiva il presupposto dell’implementazione degli accordi di stabilizzazione e di sicurezza della regione, dopo la guerra scatenata dalla NATO contro la Jugoslavia (e di fatto “contro” l’ONU essendosi svolta senza alcuna risoluzione da parte delle Nazioni Unite, quindi in aperta ed esplicita violazione della legalità e della giustizia internazionale), giungeva a seguito del più generale Accordo di Principio (o Piano di Pace, Peace Plan) per la risoluzione della crisi del Kosovo, condiviso tra il mediatore europeo, in rappresentanza della Unione Europea, Martti Ahtisaari, il rappresentante speciale del Presidente della Federazione Russa, Viktor Chernomyrdin, e la presidenza della Jugoslavia dell’epoca.
Le truppe della NATO sarebbero entrate nella regione tra il 12 e il 19 giugno; precedute, subito dopo la deliberazione delle Nazioni Unite, l’11 giugno, dalle truppe russe che, per prime, giunsero a Prishtina, capoluogo della regione, dopo la fine della aggressione della NATO; l’evacuazione delle forze armate serbe e jugoslave si andava completando, e la vigilia di queste operazioni era stata inaugurata dalla approvazione, il 10 giugno 1999, della fondamentale, tuttora in vigore, Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Quest’ultima recepiva i termini dell’accordo di pace del 9 giugno e portava a compimento i termini del riuscito accordo politico tra Ahtisaari, Chernomyrdin e Miloševic, raggiunto il precedente 3 giugno e successivamente approvato e ratificato dal parlamento serbo.
Cosa prevedeva l’accordo? In quel frangente decisivo di diciotto anni fa, venivano sanciti i punti-chiave della situazione post-bellica. Superando i termini assai controversi dell’accordo-capestro di Rambouillet, il piano di giugno si articola in dodici punti: 1) la fine della violenza e della repressione in Kosovo; 2) il ritiro delle forze militari e di polizia; 3) il dislocamento di una forza internazionale civile e di sicurezza in Kosovo sotto gli auspici delle Nazioni Unite; 4) il dislocamento di una forza militare internazionale di sicurezza «con una essenziale partecipazione della NATO»; 5) la istituzione di una amministrazione ad interim per il Kosovo, decisa dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nella quale «il popolo del Kosovo conseguirà una sostanziale autonomia all’interno della Repubblica Federale di Jugoslavia».
Inoltre: 6) dopo il ritiro, il rientro in Kosovo di un contingente limitato di personale serbo, con compiti specifici tra cui la demarcazione dei campi minati, il mantenimento di una presenza nei luoghi del patrimonio serbo, e una presenza nei valichi di confine; 7) il ritorno sicuro dei rifugiati e degli sfollati; 8) l’avvio di un processo politico di stabilizzazione (basato non più solo sul piano di Rambouillet ma anche sui principi di sovranità e integrità territoriale della Jugoslavia e la smilitarizzazione dell’UCK, la guerriglia separatista albanese-kosovara); 9) un approccio generale allo sviluppo economico della regione; 10) il raggiungimento di un accordo tecnico-militare per la gestione del post-conflitto; 11 – 12) l’implementazione delle modalità per il ritiro delle forze serbe e il rientro del personale serbo.
Proprio con il 12 giugno inizia la storia più recente del Kosovo, dopo una guerra i cui effetti si riverberano potentemente nella attualità. Nel Kosovo a maggioranza albanese, che ha proclamato la propria indipendenza, non riconosciuta dal complesso delle Nazioni Unite, il 17 febbraio del 2008, il 12 giugno è una data importante: si celebra la Giornata della Libertà, commemorando l’arrivo delle truppe della NATO (viste come “liberatrici”) e il ritiro delle forze serbe dalla regione; l’anno precedente la guerra, nel 1998, ancora un 12 giugno si riunivano i ministri della difesa della NATO per valutare, per la prima volta, le possibili opzioni militari da intraprendere in relazione all’evoluzione della crisi.
Giugno è un mese importante, in prospettiva storica, per la vicenda kosovara; oggi, dopo le ultime elezioni in Kosovo dello scorso 11 giugno, vi si condensano ancora ansie, timori, aspettative. Il risultato elettorale potrebbe rivelarsi, in tal senso, poco incoraggiante: la “coalizione della guerra”, formata da PDK, AAK e Nisma e guidata dalla controversa figura dall’ex capo-guerriglia UCK, Ramush Haradinaj, ha conquistato la maggioranza con il 35%; la coalizione di quello che fu il partito di Ibrahim Rugova (LDK) si è fermata al 26%; la partecipazione al voto non ha superato il 42%. Un dato che parla da sé.