Atai Walimohammad è un profugo afgano che vive in Italia dal 2013 e lavora come mediatore linguistico e culturale. Ha cominciato a collaborare con Pressenza per parlare del suo paese e, in generale, della situazione dei rifugiati.
Atai puoi brevemente raccontare la situazione da cui sei fuggito e quello che ti è successo che ti ha costretto a fuggire?
Ho studiato due anni in una madrasa, la scuola coranica dove a dispetto del nome “scuola” si insegna ormai solo la jihad, la guerra doverosa (non “santa”, questo è un termine che ha più a che fare con il cristianesimo e che ha portato a parecchi equivoci). In pratica, dove si insegna solo ed unicamente a diventare kamikaze.
Abbinare a questo la parola “scuola” fa rabbrividire. Eppure, questa era – e forse è ancora – la realtà. Tanti ragazzi come me sono stati indottrinati così. Un lavaggio del cervello che spingeva i miei amici a diventare shahid, ossia martiri. Rinunciare alla vita per assassinare: l’annullamento di 10.000 anni di faticoso progresso. L’indottrinamento era tale che le famiglie di questi miei amici erano contentissime quando i Talebani diedero loro il certificato del paradiso per questi “martiri”. Lo sono stati martiri, questi ragazzi, ma i carnefici non erano di certo le loro vittime, bensì chi aveva fatto loro quell’indegno lavaggio del cervello. Dopo che alcuni dei miei amici si sono fatti esplodere, le loro mamme piangevano e si frustavano, io ogni giorno sentivo le brutte notizie e la mia mamma mi disse che dovevo fare anche io il kamikaze contro i non musulmani. I talebani, nel frattempo, riuscirono ad impossessarsi del villaggio. Era il febbraio 2012. Dal centro di addestramento dei kamikaze partì un blitz che prese il controllo della zona. In un solo mese riuscirono a compiere svariate atrocità: la lapidazione in pubblico di un ragazzo ed una ragazza per adulterio, l’impiccagione di 14 ragazzi che lavoravano per l’esercito afgano e lo sgozzamento di un uomo, e mio amico, che tramite una dinamo era riuscito a portare l’elettricità a tutto il villaggio. La “sentenza” fu giustificata con il fatto che l’elettricità poterebbe la gente ad avere televisione e radio, due cose effimere, e quindi peccato mortale. Il rifiuto dell’amore fisico, il rifiuto della diversità di idee, il rifiuto del progresso tecnologico. In un solo mese (perché un mese è durato il terrore talebano nel villaggio) tutta la barbarie possibile.
I fanatici religiosi mi ostacolavano. Parlavano male di me. Dicevano che ero “infedele”. Ma io continuavo ad andare a scuola ed a studiare la scienza e non la religione. Così sono cresciuto e il mio sogno era quello di diventare uno psicologo come papà e di continuare la sua opera. La mattina frequentavo la scuola ed il pomeriggio seguivo corsi di matematica, biologia, fisica e chimica. Perché, anche se nessuno se lo ricorda più, un tempo l’Afghanistan era una terra di grandi scienziati e matematici.
Io ero ancora un ragazzino, ma con l’aiuto del Governo sono riuscito ad aprire nel mio villaggio un centro per l’apprendimento dell’inglese e dell’informatica aperto tanto ai bambini quando agli adulti. All’inizio erano proprio in pochi a venirci! Ma, piano piano, il loro numero è aumentato anche se la mia scuola aveva davvero pochi mezzi. Una volta a settimana venivano gli americani di pattuglia al villaggio ed io, che sapevo l’inglese, andavo sempre a parlare con loro. Un giorno gli americani mi portarono libri, quaderni, tappeti, sedie, matite, lavagne e tavoli. Ero felice. Potevo avere una scuola vera! Lo ricordo come uno dei momenti più belli della mia vita, il giorno in cui distribuii tutto il materiale ai ragazzi e alle ragazze del villaggio. Anche la gente cominciava a cambiare idea, a capire che un libro è un’arma migliore del fucile. Io continuavo a studiare scienza, ma mi dilettavo anche di arte. Un giorno di febbraio io e il mio fratellino Atai Dostmohammad abbiamo fatto una scultura e l’abbiamo portata a scuola per farla vedere agli studenti. All’inizio erano contenti di vederla ma poi qualcuno ha cominciato a dire che rassomigliava a Buddha e alcuni si sono arrabbiati. E’ arrivato un insegnante di teologia che ha rotto la mia statua e ha incitato i ragazzi a picchiarci. Siamo tornati a casa insanguinati. Da quel giorno si è sparsa la voce che mi fossi convertito al buddhismo e la gente ha cominciato a trattarmi da infedele. Nessuno è più venuto nella mia scuola. Allora mi hanno accusato di essere una spia e di essermi convertito al cristianesimo. I talebani hanno dato alle fiamme la mia povera scuola e mi hanno cercato a casa, devastando e bruciando tutto quello che era mio. Per fortuna, ero lontano, altrimenti mi avrebbero ucciso. Ma non sono più tornato a casa. Sono scappato verso la provincia di Herat e ho deciso che avrei lasciato per sempre la mia patria.
A tuo fratello come è andata e in che problemi si trova attualmente?
Al mio fratello maggiore, Dott. Atai Liaqat Ali, le cose non sono andate così bene. Lui era un medico e lavorava in un ospedale statale. Stava facendo la specializzazione e fu avvicinato dai talebani che gli chiesero di lavorare per loro e che non doveva più curare i governativi. Lui rifiutò. Così lo rapirono mentre lavorava in corsia. A lungo, lo torturarono con l’elettroshock. Alla fine lo abbandonarono mezzo morto sul ciglio di una strada. Da quel momento, non è più stato quello di prima. Il suo cervello ha subito gravi danni e la sua menomazione è presumibilmente irreversibile. Solo le cure antipsicotiche riescono a dargli un po’ di sollievo. Quello che rimane della mia famiglia, riuscì a farlo ricoverare in un ospedale pakistano, mentre i talebani davano alle fiamme il suo ospedale e la sua casa. Così anche mio fratello fu costretto a raggiungere l’Italia. Il suo viaggio fu ancora più difficile a causa delle sue condizioni di salute. Ma ancora urla per la paura di essere catturato dai talebani anche se sa che è in Italia. Si era sposato circa 2 mesi prima dell’episodio. È stato ascoltato dalla commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ed ha avuto lo status di rifugiato come me.
Qual è il tuo giudizio sulle istituzioni che lavorano con i rifugiati? E quello sulle associazioni di volontariato del settore?
Oggi molti italiani hanno paura delle migrazioni non perché siano ostili alle persone dei migranti, ma perché vedono che l’emergenza è gestita male, e soprattutto non ne vedono la fine. L’impressione è che il governo e gli enti locali stentino a organizzare sia l’accoglienza, sia i rimpatri; e soprattutto non riescano a disegnare un orizzonte che dia ai cittadini quella sicurezza anche psicologica senza cui l’integrazione resta utopia. Il tentativo di coinvolgere l’Europa sta dando i primi risultati. Ma gli italiani sanno che le guerre civili nel Nordafrica e in Medio Oriente non sono affatto finite, che per stabilizzare l’area serviranno anni se non decenni; e non intravedono ancora né le regole né le azioni che consentano di salvare i profughi, sottraendoli ai trafficanti di uomini. Dopo due anni di lezioni di italiano, corsi di formazione e lavori per la comunità, i problemi di integrazione sono superati, ma burocrazia e incapacità del legislatore finiscono per vanificare ogni sforzo. I pochi che ottengono lo status di rifugiato dopo un’attesa che può superare i due anni, devono lasciare il centro entro tre giorni senza un euro in tasca, senza un lavoro e un’altra struttura che metta a frutto l’investimento pubblico fatto su di loro per trasformarli in cittadini. Così la proposta del ministro degli Interni Marco Minniti di legare lo status allo svolgimento dei lavori socialmente utili, qui a Zavattarello in centro in cui io lavoro suona come una beffa. “Chi ha ricevuto risposta negativa può rimanere qui fino all’ultimo grado di giudizio. Continua a studiare, a lavorare. Ha cibo e un tetto. Ma se gli riconoscono lo status di rifugiato dobbiamo metterlo alla porta e tanti saluti”.
C’è da essere orgogliosi del modo in cui molti italiani stanno reagendo. Le associazioni di volontariato fanno un grande lavoro, spesso sopperendo alle lacune della pubblica amministrazione. E gli uomini in uniforme continuano a salvare vite, dovere giuridico e morale che in nessun caso può mai venire meno. Ma lo Stato, insieme con gli altri Paesi europei, deve fare molto altro: alleggerire il peso che grava sulle frontiere, organizzando il viaggio dei profughi e il respingimento dei clandestini; e far funzionare la macchina dell’integrazione, legando i diritti ai doveri, che comprendono la conoscenza e il rispetto dei nostri valori, a cominciare dall’uguaglianza tra uomo e donna. A patto di rispettare la paura ed eliminarne le ragioni.
La guerra in Afghanistan sembra una guerra senza fine: esiste secondo te una volontà di terminarla?
Da molti anni quasi tutte le nazioni del mondo sono impegnate nella missione di pace in Afghanistan, e dopo 17 anni e 5 mesi della loro presenza non è stata portata la pace nemmeno in un distretto del paese, e addirittura i problemi sono aumentati. Prima erano solo i talebani ma adesso ci sono anche gli altri gruppi terroristici come Isis, Haqani e etc. in incubazione le uova degli altri gruppi terroristici e sappiamo benissimo dove nascono e come crescono, e chissà quando nascono come li chiameranno? Ma sono figli tutti dello setsso padre, tutto comincia dal Pakistan alleato degli Stati Uniti; così nessuno dice nulla. Non è ammazzando i terroristi che si risolve il problema del terrorismo, bisogna eliminare le ragioni che li rendono tali. Questo vuol dire che finché ci sono i campi petroliferi e gli interessi dei paesi stranieri la guerra non finirà mai in Afghanistan e in mezzo la povera gente come da sempre va ammazzata sia da parte dai talebani (figli dei paesi stranieri) che dai governativi.