Può un torneo di calcio diventare un’occasione di civiltà e di inclusione oltre che di divertimento e di sfida? Sì, se si tratta del Mundialido, un torneo che da 19 anni si ripropone come campionato calcistico e, al tempo stesso, progetto di mediazione culturale che avvicina le diverse comunità migranti che vivono nella Capitale.
Il Mundialido, cioè il torneo di calcio per stranieri, realizzò il suo primo campionato nel 1999 e da allora ogni anno, grazie alla collaborazione di Ambasciate, Consolati, Comunità straniere e qualche Istituto scolastico, si è ripetuto con successo fino a diventare ormai una realtà così significativa che parteciparvi dà un certo prestigio. Quest’anno, per la prima volta, partecipa anche la Palestina.
Le formazioni presenti sono 24, di cui 9 africane, 6 latino-americane, 6 europee e 3 asiatiche.
I componenti sono tutti rigorosamente stranieri, siano essi richiedenti asilo o cosiddette “seconde generazioni”, come nel caso di alcuni giocatori palestinesi figli di profughi cacciati dalle loro terre nel 1948. Il più giovane della squadra Palestina ha 14 anni, il più vecchio ne ha 25 e grande è la soddisfazione del dirigente, Mallah Othman, che per la prima volta è riuscito a creare ed inserire il team in questo torneo.
Se per tutti i migranti questo campionato rappresenta qualcosa di importante, per i palestinesi forse rappresenta qualcosa di più perché è ancora vivido il ricordo del giocatore Mahmoud Sarsak, sogno e promessa della nazionale di una nazione ancora fantasma, che fu arrestato da Israele senza alcun motivo se non quello di impedirgli di partecipare ad un match importante. Sarsak cercò di attirare l’attenzione del mondo sull’ingiustizia che assieme ad altri giocatori stava subendo, entrando in sciopero della fame e sospendendolo solo dopo 97 giorni, ormai quasi in fin di vita, quando Israele, in seguito all’interessamento pubblico di personalità autorevoli e di organizzazioni internazionali accettò di liberarlo.
Il caso ha voluto che la prima partita del torneo di quest’anno si sia svolta proprio durante un altro sciopero della fame di prigionieri palestinesi: era il 26 maggio e la squadra palestinese sfidava e vinceva per 2 a 1 il Bangladesh. La vittoria veniva ovviamente dedicata ai prigionieri in sciopero della fame. Uno sciopero lanciato per ottenere il rispetto dei minimi diritti umani da parte dello Stato di Israele, il quale non solo occupa illegalmente i territori non suoi, ma arresta migliaia di cittadini, compresi donne e bambini, molto spesso senza neanche una parvenza di colpa se non quella di essere palestinesi.
Proprio il giorno successivo alla prima partita, si concludeva lo sciopero della fame con l’ottenimento di parte delle richieste avanzate dai prigionieri e la squadra palestinese ha iniziato a godersi il campionato con maggior leggerezza d’animo. Seppure la seconda partita abbia visto l’indiscutibile superiorità del Gambia, che ha letteralmente stracciato per 5 a 0 la squadra della Palestina, il clima di solidarietà e il piacere di poter giocare in libertà hanno reso la sconfitta accettabile, riportandola nello spirito del gioco che tutti auspicano anche nei tornei professionisti, ma che difficilmente si realizza negli stadi in cui accanto al gioco scorrono miliardi.
Domani, 9 giugno, ci sarà l’ultimo match e la squadra avversaria sarà l’Honduras. I ragazzi palestinesi si stanno allenando per riuscire a vincere, ma non sarà semplice. Questo è uno dei casi in cui, anche perdendo, si potrà dire “l’importante era partecipare” perché quello che per altri ragazzi è normale, per un palestinese è una conquista e una rottura della gabbia in cui è tenuto dall’occupazione israeliana.
Ambasciata palestinese, Comunità palestinese, Associazioni filo-palestinesi, tutti invitano i romani o chi passa per Roma ad andare a fare il tifo alle 21,00 al campo Cotral. che si trova in zona Marconi. Si tratta di un quartiere che può vantare una biblioteca ricca di bellissime iniziative, spesso animate proprio da cittadini, un giorno migranti, che ormai rappresentano punti significativi dell’intreccio culturale che ha arricchito la Capitale, come, ad esempio, lo scrittore algerino Amara Lakhous, che ambienta alcuni suoi romanzi proprio in quel quartiere. Con buona pace di chi i migranti cerca di ghettizzarli e cacciarli con un accanimento che può solo chiamarsi razzismo. Vedi l’esperienza del Baobab.
Il campo in cui si svolge il Mundialido si trova sul Tevere, sotto il grande ponte Marconi. Attenzione, “un ponte e non un muro” e questo rappresenta, seppur casualmente, un altro elemento simbolico di una società che voglia avvicinare e non rinchiudere in singoli ghetti le diverse comunità.
Se il Mundialido, utilizzando quel che viene definito “il gioco più bello”, è riuscito a rendere protagonisti i giocatori stranieri in quanto rappresentanti della loro terra e cultura d’origine in una bella interazione con il territorio in cui sono venuti a vivere, ha fatto qualcosa di ancor più significativo per i giocatori che compongono la squadra Palestina: ha permesso, attraverso la partecipazione al torneo, di ricordare al mondo che la Palestina esiste, che non va cancellata dalle mappe, che è una terra in attesa di giustizia, abitata da un popolo sotto assedio e occupazione militare che comunque, nonostante le violenze cui è costantemente sottoposto, non ha perso il piacere di vivere e il desiderio di rapportarsi, anche nel gioco, col resto del mondo.
Qualcuno la chiama resilienza, qualcuno tenacia, qualcuno resistenza. Le parole hanno una loro strada e a volte s’incontrano, ma al di là delle parole la realtà è qui: la Palestina esiste e la sua squadra di calcio domani giocherà contro l’Honduras. Che vinca il migliore e la vittoria sarà comunque condivisa!