A proposito dei potenziali culturali nella trasformazione del conflitto
L’evento di presentazione, presso il Centro Studi Sereno Regis lo scorso 19 maggio, del volume di ricerca-azione “Ordalie. Memorie e Memoriali per la Pace e la Convivenza” (Edizioni Ad Est dell’Equatore, Napoli, 2017), ha costituito, alla presenza di un pubblico attento e qualificato, un’occasione preziosa per intavolare un confronto aperto, non vincolato ai temi del volume, sensibile a suggestioni di impegno civico e di costruzione della pace. Ovviamente, tale confronto, se da una parte non poteva prescindere da alcuni dei presupposti stessi della ricerca-azione (dal profilo progettuale alla metodologia scelta “sul campo”), dall’altra non ha perso l’occasione di interrogarsi anche su alcuni retroterra storici, culturali e filosofici, senza i quali un percorso di autentica comprensione e di efficace intervento, nella materia, spigolosa e controversa, dell’impegno per la trasformazione in un contesto di conflitto, risulterebbe, a ben vedere, inerte o astratto.
La prima delle relazioni introduttive (quella di Paolo Candelari del MIR) ha avviato una riflessione promettente, anche nel senso di individuare le coordinate spazio-temporali di riferimento, in grado di “situare”, nel tempo e nello spazio, questa disamina: «Una gente che libera tutta O fia serva tra l’Alpe ed il mare; Una d’arme, di lingua, d’altare, Di memorie, di sangue e di cor», scrive il Manzoni nella celebre «ode patriottica» del Marzo 1821, dove viene condensata una intera idea di nazione, incarnata in una «unità di intenti», animata da luoghi civili e culturali (le “memorie”, la “lingua”), e, soprattutto, bellici (l’“arme”), di fede religiosa (“d’altare”) e di passione nazionale (“di sangue e di cor”). Ciò consegna una idea di nazione radicata nel sentire comune, in base alla quale la nazione è, essenzialmente, «unità di popolo» a partire dalla lingua comune, dal territorio condiviso, compattamente difeso sulla punta della spada contro l’invasore, e dalla unica fede religiosa.
Tutto ciò, evidentemente, non parla solo a noi, ma ad un intero sviluppo storico e sociale, almeno dalla formazione sul suolo europeo dei grandi stati nazionali e a maggior ragione a seguire la Pace di Westfalia del 1648; ma parla, in modo particolare, anche in questo caso focalizzando una data storica come quella del Congresso di Berlino del 1878, ai Balcani, contesto multi-etnico e multi-nazionale per eccellenza che, come ricorda l’altra delle relazioni introduttive (quella di Gianni D’Elia, dell’IPRI – Rete CCP), è stato, al tempo stesso, territorio di guerra e laboratorio di pace, nell’un senso perché terreno di saturazione del conflitto etnico fino ad assurgere a paradigma della guerra etno-politica del nostro tempo, e nell’altro perché contesto di attivazione di iniziative e sperimentazioni di società civile, anche e soprattutto italiana, che, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, si sono cimentate nell’interposizione nonviolenta e nella promozione della pace.
È bene passare in rassegna, di tutte queste sperimentazioni, almeno quelle richiamate anche nel corso della riflessione torinese: ad esempio, la marcia per la pace e per porre fine alla guerra in Bosnia che è poi passata alla storia come la “Marcia dei Cinquecento”, la quale, ispirata da un appello lanciato da don Tonino Bello nel 1992 e promossa da numerose realtà della società civile di pace del nostro Paese, in primis i Beati Costruttori di Pace, partì poi da Ancona il 6 dicembre 1992 alla volta di Sarajevo, già sotto assedio (lo sarebbe rimasta per quattro inverni consecutivi, più di 1400 giorni, l’assedio più lungo della storia recente), per “rompere l’assedio”, nella prospettiva del 10 dicembre, anniversario della promulgazione, avvenuta nel 1948, della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, e Giornata Internazionale dei Diritti Umani, che si celebra all’insegna delle “quattro libertà”: la libertà di parola e di culto, la libertà dal bisogno e dalla paura.
Una testimonianza cruciale, non solo del nesso, simbolico e concreto allo stesso tempo, tra costruzione della pace e tutela dei diritti umani nel complesso delle loro articolazioni o “generazioni” (diritti civili e politici; diritti economico-sociali e culturali; diritti dei popoli e dell’ambiente), ma anche della praticabilità concreta dell’impegno civico, da parte delle espressioni della società civile organizzata, ai fini della prevenzione della violenza, della interposizione disarmata e della deterrenza alla prosecuzione delle ostilità, quando non nella ricostruzione della pace. Alcuni dei compiti dei corpi civili di pace, quale strumento di società civile per la prevenzione dei conflitti armati e per il superamento positivo dei conflitti, vi sono ampiamente prefigurati.
Convergendo verso quello «scenario nello scenario» che è lo specifico del Kosovo, non si può non ricordare anche l’esperienza della Ambasciata di Pace a Prishtina, il capoluogo kosovaro, progetto lanciato, su iniziativa di Alberto L’Abate, dei Berretti Bianchi e di altri, sin dal 1994 (epoca del movimento nonviolento di auto-determinazione degli albanesi kosovari), che si sarebbe caratterizzato come «uno strumento della società civile e delle popolazioni [da cui] sole deve trarre le sue linee di lavoro e di finanziamento. È tuttavia possibile e augurabile che alcune istituzioni locali, nazionali o internazionali, aiutino, di volta in volta e in varie forme, l’attività dell’ambasciata di pace, senza, tuttavia, risultare mai determinanti. […] Per società civile si intende […] fare riferimento a tutte quelle organizzazioni internazionali e non che operano sul nostro pianeta nei più diversi settori del volontariato e che intendono oggi farsi carico di questo compito».
Una ambasciata, per esplicito intendimento dei proponenti, da concepirsi come «autonoma da tutti i governi sia finanziariamente sia politicamente» in quanto strumento di “diplomazia dei popoli”, e da strutturarsi attraverso compiti quali l’apertura della comunicazione tra i popoli, il sostegno alle popolazioni, il sostegno alle organizzazioni locali di società civile orientate alla pace, il monitoraggio e la denuncia delle violazioni dei diritti umani, un osservatorio permanente di pace e nonviolenza e uno strumento di prevenzione dei conflitti armati (il testo sulla Ambasciata di Pace fu pubblicato in “Guerre & Pace”, n. 15, settembre 1994).
In questo senso, il lavoro sui potenziali sociali e culturali, sia nel senso del consolidamento delle risorse della società civile impegnate nella prevenzione della violenza e nella costruzione della pace, sia nel senso della individuazione di tutte quelle occasioni ed opportunità che, agendo sul piano sociale e culturale, possono contribuire alla costruzione di ponti, di occasioni di comunicazione e di spazi di convivenza tra i popoli, risulta decisivo per la costruzione della pace. Non a caso, questo ambito racchiude una sfera di impegno rilevante nell’azione propria dei corpi civili di pace. Riprendendo l’intuizione di Alex Langer, «nel fare ciò esso ha solo la forza del dialogo nonviolento, della convinzione e della fiducia da costruire o restaurare».
«Agirà portando messaggi da una comunità all’altra. Faciliterà il dialogo all’interno della comunità […]. Proverà a rimuovere l’incomprensione, a promuovere i contatti nella locale società civile. Negozierà con le autorità locali e le personalità di spicco. Faciliterà il ritorno dei rifugiati, cercherà di evitare, con il dialogo, la distruzione delle case, il saccheggio e la persecuzione […]. Promuoverà l’educazione e la comunicazione tra le comunità. Combatterà contro i pregiudizi e l’odio. Incoraggerà il mutuo rispetto fra gli individui. Cercherà di restaurare la cultura dell’ascolto reciproco. E cosa più importante: sfrutterà al massimo le capacità di coloro che … non sono implicati nel conflitto (gli anziani, le donne, i bambini)» (documento per la creazione di un corpo civile di pace delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, in “Azione Nonviolenta”, ottobre 1995).
Una lunga e innovativa suggestione, una cui eco si ritrova, peraltro, anche nella elaborazione più recente, tra le altre, della Rete della Pace, quando, in una sua piattaforma tematica, ricorda che «nell’ottica di costruire alternative all’uso della forza …, sosteniamo l’urgenza di organizzare interventi civili di pace in zone di conflitto, tramite corpi di volontari e operatori professionali. Questi sostengono, in qualità di terze parti, gli attori locali nella prevenzione e trasformazione dei conflitti. L’obiettivo degli interventi è la promozione di una pace positiva, come cessazione della violenza [e] come affermazione di diritti umani e benessere sociale. […] La scelta nonviolenta e la netta distinzione dai contingenti militari rendono credibile l’indipendenza e la non-partigianeria dei CCP e consentono di declinare la costruzione della pace in una miriade di attività …».
Sebbene, dunque, le condizioni di progresso sociale costituiscano fattore decisivo ai fini della promozione della società civile e del miglioramento dei rapporti sociali (cosa tanto più vera in Kosovo, dove la disoccupazione è ufficialmente intorno al 35%, quella giovanile stimata intorno al 50% e quella femminile intorno al 60% e lo stipendio medio mensile ufficialmente non superiore a 450 €), non di meno il terreno culturale può risultare cruciale ai fini dello sviluppo di percorsi di reciproca comprensione e di pacifica convivenza. In effetti, il terreno stesso della convivenza, basato sul riconoscimento dei vissuti e delle memorie, su un’apertura pluralistica all’altro nella pienezza della sua umanità e su una piena appropriazione dei patrimoni sociali e culturali come patrimoni diffusi e universali, trova nel lavoro sulle culture e sulle memorie, in particolare in termini di “memorie collettive”, una motivazione e un fondamento assai forti.
D’altro canto, le pratiche sociali attraverso cui un patrimonio di memoria si consolida in memoria collettiva non devono necessariamente essere vincolate dal loro potenziale ideologico, utile alla narrazione dominante, ma possono essere positivamente ri-attraversate come una occasione per una rilettura della storia in chiave pluralistica, come “storia di storie”, o, se non altro, una trama capace di ascoltare anche “la storia dell’altro”. Tali patrimoni di memoria, infatti, risultano tali proprio in forza del rilievo che la comunità vi attribuisce, esaltando quel “di più” di senso in essi racchiuso (o perché costituiscono testimonianza di eventi salienti del passato o perché riconosciuti come particolarmente significativi anche ai fini di una sorta di soggettivazione identitaria) attraverso tipiche funzioni sociali di tipo relazionale, dai discorsi alle commemorazioni, dalle manifestazioni pubbliche alle celebrazioni rituali, dagli eventi e dalle parole che vi si continuano a produrre.
Nella sua relazione, Enrico Peyretti pone l’accento proprio su questo, con una riflessione densa di implicazioni: l’universalismo culturale (ad esempio nel senso dell’«uomo planetario» richiamato da Ernesto Balducci, laddove «tutte le identità [specifiche] perdono di senso per lasciare posto all’unica identità [universale] che ciascuno è in grado di dare a sé stesso, al di fuori di ogni eredità, semplicemente con l’assumersi o con il rigettare le responsabilità del futuro del mondo») inteso come visione comune e visione trasversale, allo stesso tempo, come base della pace e fondamento della convivenza. Vi è, in questo, un rimando assai intenso alla riflessione sulla memoria collettiva, a crocevia tra i patrimoni culturali e i luoghi della memoria, che sostanzia di sé la stessa ricerca-azione: non una memoria “di” tutti, ma una memoria “per” tutti, capace di maturare in sorgente di comprensione e di appropriazione e di fare del Kosovo un Kosovo per tutti e tutte.