“E’ fantastico essere qui con il presidente dell’Egitto. Vi dirò, il Presidente Al-Sisi mi è stato sempre molto vicino fin dalla prima volta che l’ho incontrato. Siamo d’accordo su molte cose. Voglio che tutti sappiano, nel caso sorga qualche dubbio, che sosteniamo con forza il Presidente Al-Sisi. Ha fatto un ottimo lavoro in una situazione molto difficile”.
Queste parole, pronunciate dal Presidente degli Usa Donald Trump, non devono stupire. Le aveva pronunciate, addirittura con maggiore enfasi, l’ex Presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi quando aveva incontrato al-Sisi poco dopo il colpo di stato del luglio 2013. Sono state fatte proprie da altri leader europei, soprattutto dal francese Hollande, prontissimo ad approfittare della successiva tensione nei rapporti diplomatici tra Italia ed Egitto a seguito dell’assassinio, al Cairo, di Giulio Regeni.
Al-Sisi piace. Per gli stessi motivi per cui – come ha efficacemente spiegato Vittorio Zucconi su “la Repubblica” due giorni fa – piaceva Augusto Pinochet nel XX secolo e piacevano, a cavallo di quel secolo e dell’attuale, Muammar Gheddafi e Saddam Hussein, che poi devono aver fatto qualche errore.
Come piacciono in questo decennio il siriano Bashar el-Assad, che qualche errore, anzi “orrore”, l’ha fatto ma gli è stato finora perdonato, o il Presidente del Sudan Omar al-Bashir, con la cui polizia – nonostante egli sia ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio – quella italiana ha raggiunto un accordo che ha già comportato il rimpatrio forzato di 40 sudanesi.
Sono tutte figure rassicuranti perché ci proteggono dal “male”: ieri dal contagio rivoluzionario e oggi – a scelta – dall’invasione dei migranti o dal terrorismo.
E noi li ringraziamo per il loro sporco lavoro, ignorando che dal 2011 in Egitto e Siria ci sono stati rispettivamente più desaparecidos che in Cile e in Argentina o che l’anno scorso il Sudan ha ripetutamente usato le armi chimiche contro la popolazione civile del Darfur.