Come arrivano stati e regioni dei Balcani Occidentali all’importante appuntamento, di oggi e domani, in occasione del “Vertice a Sei”, a Sarajevo, tra il Commissario Europeo all’Allargamento, Johannes Hahn, e le leadership di Bosnia, Serbia, Montenegro, Macedonia, Albania e dell’auto-governo del Kosovo? Il contesto regionale con cui le cancellerie e gli osservatori si trovano a che fare è uno dei più problematici dell’intero panorama europeo e registra, in questa fase, uno dei momenti più acuti di crisi e di inquietudine. Non è solo la prospettiva incerta e faticosa dell’allargamento europeo ad essere messa in discussione; ancora una volta, è la stessa possibilità di pace e convivenza nella regione a segnare battute di arresto assai preoccupanti.
Anche per questo, più che nel recente passato, le diplomazie si esercitano in un “lavoro sul simbolico”, un “intervento sugli immaginari” che non si vedeva da tempo. Abbiamo già raccontato, qui, dell’intervento di Federica Mogherini, Alto Rappresentante della Politica Estera UE, sul ponte della città divisa di Mitrovica, tra gli Albanesi e i Serbi del Kosovo, in occasione della sua vista il 4 Marzo nella regione; analogamente, venerdì 17 Marzo, Johannes Hahn inaugurerà l’apertura del ponte sulla Sava a Svilaj, a cavallo tra la Bosnia e la Croazia. I “ponti” tornano ad essere veicolo di immaginari potenti: non solo contro i nuovi muri che, non solo in Europa – e qui soprattutto nei Balcani – si ergono per costruire nuove separazioni e impostare nuovi respingimenti “sovrani”; ma anche per segnalare l’esigenza della convivenza e della costruzione della pace.
Sebbene le cancellerie non manchino di esprimere, ad ogni occasione, “pieno sostegno” al percorso europeo di questo o quel paese della regione (ultimi, in ordine di tempo, il ministro degli esteri italiano, in visita a Belgrado lo scorso 14 marzo, e la cancelliera tedesca, presso la quale si è recato il premier serbo ancora lo scorso 14 marzo), non sempre questo “dialogo strutturato” viene percorso con coerenza né mancano forzature e condizionamenti. Le dichiarazioni, “in parallelo”, del ministro italiano e della cancelliera tedesca, se da una parte confermano il sostegno di Roma e Berlino al percorso europeo, insistono dall’altro sul fare di più e meglio sia nel senso delle riforme interne che, in questo caso la Serbia – ma non si tratta solo della Serbia – devono intraprendere, sia nel senso della “liberalizzazione” sempre più spinta dei mercati nazionali nei confronti del mercato europeo. Senza contare, ovviamente, pressioni anche di altro tipo: come quella, paventata a più riprese, di subordinare il percorso europeo della Serbia al riconoscimento del Kosovo come Stato, alimentando tensioni nel dialogo bilaterale e cancellando di fatto la risoluzione 1244 del 1999.
D’altro canto, una recente risoluzione del Parlamento Europeo, votata in Commissione Esteri il 28 febbraio, approvata con 40 voti favorevoli, 12 contrari e 5 astensioni, si è perfino spinta a stigmatizzare il fatto che cinque paesi membri dell’Unione Europea (Spagna, Romania, Slovacchia, Grecia e Cipro) non riconoscano il Kosovo come Stato, notando come se i Paesi membri si allineassero su una linea comune rafforzerebbero la credibilità della UE ed affermando, in questo caso persino paradossalmente, che un riconoscimento ufficiale del Kosovo come Stato finirebbe per aiutare a “normalizzare” le relazioni tra il Kosovo stesso e la Serbia.
Né il Consiglio Europeo è stato in grado di approvare un documento comune sui Balcani Occidentali a conclusione della riunione tenuta lo scorso 10 marzo: nelle conclusioni, il Consiglio sottolinea l’importanza della prosecuzione del processo di riforma, delle relazioni di buon vicinato e delle iniziative di cooperazione regionale; peraltro, come ribadito dal presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker, non è stato un errore l’avere annunciato che non ci sarebbe stato nessun nuovo ingresso nell’UE durante il mandato dell’attuale Commissione, poiché, come riportato dalla stampa, «nessun candidato è pronto per l’ingresso».
Non mancano, poi, nuove minacce e criticità: dalla Bosnia è stata avanzata alle Nazioni Unite la richiesta di rivedere la sentenza della Corte dell’Aja del 2007 che assolse la Serbia in quanto tale dall’accusa di genocidio in Bosnia (richiesta respinta dalla Corte lo scorso 8 Marzo); dal Kosovo, quando ci si aspetterebbe un rilancio del dialogo mediato a Bruxelles e la piena implementazione degli Accordi del 19 Aprile 2013 e del 25 Agosto 2015, avanza addirittura la proposta di trasformare la “Kosovo Security Force” in un vero e proprio esercito regolare del Kosovo (richiesta che, se approvata, non potrebbe che bypassare il dettato stesso della costituzione del Kosovo e che non ha mancato di suscitare preoccupazione anche negli ambienti UE e NATO), progetto per ora accantonato ma che resta sullo sfondo come una minaccia nei rapporti regionali.
Intanto, annunciata a più riprese per il 20 Gennaio, la riapertura del ponte-simbolo di Mitrovica slitta ancora a data da destinarsi: per quello che la Mogherini stessa auspicava potesse diventare, da “simbolo della divisione”, un “simbolo del dialogo”, si parla adesso addirittura del mese di maggio. Intanto, il 2 Aprile, si voterà in Serbia per il nuovo presidente della Repubblica; il successivo 18 Giugno si terranno le elezioni legislative in Albania; e la Macedonia, ancora senza governo dopo le ultime elezioni politiche, è attraversata da proteste e dissidi, anche questi a sfondo etno-politico, tra nazionalisti macedoni e minoranza albanese locale.
Ancora una volta, i frutti avvelenati del nazionalismo e le interferenze interessate delle maggiori potenze scaricano sui Balcani crisi e tensioni; e i Balcani tornano, ancora una volta, al centro dell’Europa, quando la pace e la convivenza nell’Europa del Sud e dell’Est significano pace e convivenza per il continente intero.