Un “lento tsunami” sta minando la salute a livello mondiale. La definizione di Margaret Chan, direttrice generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), si riferisce all’antibiotico-resistenza, un fenomeno causato in primis dagli allevamenti intensivi, che nella sola Unione europea provoca 25mila morti all’anno, con una spesa sanitaria di ben 1,5 miliardi di euro (dati del Centro europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie di Stoccolma).
Se esposti in modo eccessivo e inappropriato agli antibiotici, alcuni batteri sviluppano meccanismi di resistenza che rendono inefficaci questi preziosi medicinali, riproducendosi e trasferendo la loro potenza a batteri ancora più pericolosi per l’uomo. Rischiamo così di entrare in un’era post-antibiotica, nella quale infezioni comuni e semplici operazioni di chirurgia potranno nuovamente esser letali. Poco rassicurante è anche una previsione del governo britannico, secondo cui le attuali 700mila vittime annue nel mondo a causa dell’antibiotico-resistenza potrebbero diventare addirittura 10 milioni entro il 2050. Un numero superiore agli attuali morti a causa di cancro e malattie cardiovascolari.
«L’Italia, all’interno dei Paesi Ue, è il terzo più grande utilizzatore di antibiotici negli allevamenti, con la situazione più critica negli allevamenti intensivi: il 71% degli antibiotici venduti in Italia va agli animali d’allevamento e il 94% di questi trattamenti è di massa. Questa modalità di utilizzo degli antibiotici è la condizione a più alto rischio per la nascita di super batteri che dagli allevamenti possono raggiungere le persone e farle ammalare, contribuendo a far salire il numero di morti per antibiotico resistenza (tra 5.000 e 7.000 persone all’anno in Italia)».
Così recita il testo di una interrogazione parlamentare proposta dall’on. Ermete Realacci e sottoscritta da oltre 20 associazioni (tra queste Legambiente, Ciwf Italia, Altroconsumo, Arci, Cgil, Wwf Italia, Lipu, Slowfood, FederBio, Greenpeace Italia), che chiede al governo di ridurre significativamente il consumo di antibiotici negli allevamenti (in particolare quelli critici per l’uomo), redigere un aggiornato Piano nazionale sull’antibiotico resistenza che preveda anche il monitoraggio sui dati di consumo, nonché assumere iniziative per porre il divieto dell’uso profilattico e metafilattico dei trattamenti di massa preventivi di gruppi animali.
Il consumo di antibiotici negli allevamenti italiani è ben al di sopra della media europea, peggio di noi fanno solo Spagna e Cipro. Nel report dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema), le vendite di questi farmaci sono state calcolate in termini di quantità di principio attivo utilizzato per unità di bestiame (Pcu in sigla): in Italia nel 2014 l’uso è stato di 359,9 mg/Pcu, più del doppio della media europea, fissata a 152 mg/Pcu. Lo spropositato utilizzo di antibiotici si deve al fatto che gli allevamenti sono intensivi e sottopongono gli animali a condizioni di forte stress psico-fisico e sovraffollamento ambientale, che determinano una maggiore sensibilità alle infezioni batteriche e aumentano i rischi di contrarre e trasmettere malattie infettive. Per evitare la morte prematura dei capi e la diffusione delle patologie, gli allevatori somministrano dosi massicce di antibiotici nel cibo e nell’acqua sia in modo preventivo che metafillatico, intendendo con questo termine l’impiego dei farmaci sul resto degli animali sani quando un esemplare contrae una malattia infettiva.
Il pericolo di questo uso eccessivo di antibiotici dettato dai limiti della produzione industriale è sotto gli occhi di tutti, poiché i batteri che sopravvivono al trattamento si moltiplicano e possono mutarsi in ceppi più virulenti, particolarmente nocivi per la salute umana. La trasmissione dagli allevamenti all’uomo e all’ambiente circostante è molto facile, trovando varie vie tramite gli allevatori stessi, i trasporti, le carcasse degli animali, gli impianti di ventilazione e i sistemi di gestione dei rifiuti degli stabilimenti. Senza dimenticare l’effetto-domino, perché attraverso gli escrementi dei capi allevati i batteri resistenti si diffondono anche nei concimi, nell’acqua di irrigazione e nel terreno utilizzato per la produzione agricola.
Uno dei casi più eclatanti di abuso di antibiotici in Italia è relativo agli allevamenti avicoli. Ogni anno nel Belpaese vengono allevati 500 milioni di polli da carne in modo perlopiù intensivo (80%). Si tratta di animali stipati in capannoni sovraffollati (ne possono vivere fino a un massimo di 20 in un solo metro quadro), selezionati geneticamente per crescere in modo abnorme visto che la macellazione è prevista dopo 39-42 giorni.
Tale processo li rende immunodepressi con un alto rischio di insorgenza di zoppie, malattie respiratorie e cardiovascolari. In queste terribili condizioni la sopravvivenza fino al giorno della macellazione è garantita solo dal ricorso sistematico a grandi quantità di antibiotici, mentre si rivela facile la diffusione di batteri sempre più resistenti come la Salmonella e il Campylobacter.
Il tutto per ottenere notevoli quantità di carne più grassa e meno nutriente, veduta a prezzi molto bassi. Ne vale la pena?
«L’uso eccessivo di antibiotici negli allevamenti di polli è necessario perché le difese immunitarie degli animali sono estremamente ridotte dalla selezione genetica e dalle condizioni di allevamento, tra cui le altissime densità. Il miglioramento delle condizioni ambientali da solo non basta a risolvere questo problema: solo lavorando anche sugli aspetti di selezione delle razze (optando per animali ad accrescimento più lento) e sulla riduzione delle densità sarà possibile ridurre l’uso di antibiotici e tenere sotto controllo il fenomeno dell’antibiotico-resistenza, che attualmente rappresenta una vera e propria minaccia per la salute pubblica. Nessun interesse commerciale dovrebbe avere la priorità rispetto alla salute dei cittadini italiani», dichiara Annamaria Pisapia, direttrice di “Compassion in World Farming” (CIWF) Italia, un’associazione no profit che lavora esclusivamente per la protezione e il benessere degli animali allevati a scopo alimentare.
Nel 2015 la produzione di carni avicole in Italia è stata pari a 1.296.400 tonnellate, con un consumo pro capite di 19,85 kg. Finora i piani di riduzione dell’uso degli antibiotici negli allevamenti sono stati solo volontari e non hanno previsto monitoraggi trasparenti. Con estremo ritardo, il Ministero della Salute ha iniziato a lavorare a un Piano nazionale contro l’antibiotico-resistenza, aprendo anche alla possibilità di introdurre l’obbligatorietà della ricetta elettronica del farmaco veterinario per conoscerne il reale uso.
CIWF chiede al ministro della Salute Lorenzin che il piano di riduzione sia reso obbligatorio, preveda multe o disincentivi per chi superi certi livelli di somministrazione e vieti in alcune filiere l’uso degli antibiotici di importanza critica per l’uomo. La onlus invoca inoltre le necessità di monitorare e rendere trasparenti i dati di consumo, ridurre l’utilizzo di antibiotici con obiettivi precisi e scadenze temporali, abolire il loro uso sistematico e profilattico e soprattutto incentivare sistemi di allevamento maggiormente rispettosi degli animali.
«L’unica via per contrastare l’antibiotico resistenza è ridurre il consumo di antibiotici, limitarlo ai casi di dichiarata malattia e riservare gli antibiotici di importanza critica al solo consumo umano», sostiene CIWF, che in questa materia lavora in collaborazione con Legambiente e Altroconsumo, quest’ultima di recente autrice di un’indagine che ha rilevato il 63% di batteri resistenti nella carne di pollo.
Alcuni provvedimenti, quali il divieto europeo all’utilizzo di antibiotici come promotori della crescita negli animali (in vigore dal 2006) e la sospensione dei trattamenti farmacologici prima della macellazione, non bastano a farci dormire sonni tranquilli. Il problema dell’antibiotico-resistenza è dovuto non solo agli allevamenti intensivi, ma anche alle prescrizioni senza necessità, alle assunzioni senza controllo, agli scarsi investimenti in ricerca e all’insufficiente interesse in materia da parte di tutte le autorità competenti.
Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi) la resistenza agli antibiotici potrebbe gravare del 3,5 per cento sulla crescita mondiale, per un totale di circa 100 miliardi di dollari, mentre la Banca mondiale ha calcolato che questo fenomeno potrebbe avere effetti economici negativi addirittura più gravi della crisi economica del 2008. Se Paesi come Danimarca, Norvegia, Svezia e Olanda hanno già introdotto severe ed efficaci normative per ridurre il consumo di antibiotici negli allevamenti, in questo settore l’Italia continua a muoversi in un’ottica emergenziale e manca di una strategia integrata di contrasto adeguatamente supportata da un piano di investimenti pubblici. In assenza di un coordinamento nazionale le Regioni si muovono in ordine sparso: Toscana, Emilia Romagna e Campania, ad esempio, hanno attivato dal 2013 un sistema di monitoraggio delle resistenze attraverso la rete dei laboratori di microbiologia regionali.
I dati e le previsioni dimostrano che l’antibiotico-resistenza è un problema da non sottovalutare: staremo a vedere se il Piano nazionale per la riduzione degli antibiotici, che dovrebbe entrare in vigore quest’anno, basterà a fronteggiarlo.
Marco Grilli