Di Christine Vanden Daelen
Il debito non è assolutamente neutrale dal punto di vista dell’equità di genere. Al contrario, rappresenta un enorme ostacolo alla parità tra uomini e donne su scala globale. Le misure macroeconomiche ad esso associate sono sessualmente definite sia nelle caratteristiche che nei loro effetti. Ovunque, esse impongono le peggiori regressioni sociali alle popolazioni più vulnerabili e più povere, e conseguentemente principalmente alle donne. Le più vulnerabili tra queste (madri single, donne giovani o anziane, migranti, disoccupate, donne appartenenti ad una minoranza etnica o provenienti da un contesto rurale, o ancora vittime di violenza) sono quelle che subiscono le maggiori pressioni per accorrere in soccorso degli speculatori del debito. Proprio come i piani di adeguamento strutturale (PAS) impoveriscono e portano allo stremo le donne del sud del mondo da oltre 30 anni, i piani di austerità stanno ora dissanguando quelle europee. Gli stessi meccanismi derivanti da una stessa ideologia neoliberale sono all’opera ovunque. Privatizzazioni, liberalizzazioni, restrizioni di bilancio nell’agenda delle politiche neoliberiste giustificate dal debito tagliano i diritti sociali delle donne, ne accrescono la povertà, consolidano e aggravano le disuguaglianze di genere, minano le conquiste femministe.
Perdite di posti di lavoro e di reddito per le donne
Ovunque, sotto l’effetto della crisi del debito cresce il tasso di disoccupazione femminile. In Europa, l’occupazione sta diventando sempre più inaccessibile, particolarmente per le giovani donne nei paesi più colpiti dalla crisi del debito. |1| Nei paesi del Sud, molte donne perdono il lavoro a seguito dei massicci licenziamenti imposti nel servizio pubblico dalle istituzioni finanziarie internazionali (IFI) ma non solo… Altre misure strutturali dei PAS, come la svalutazione della valuta locale, la produzione mirata tutta sull’esportazione o la liberalizzazione del commercio mondiale, allontanando le donne dal mondo del lavoro retribuito o spingendole ad accettare salari al limite della schiavitù, |2| contribuiscono a fare della loro autonomia economica un obiettivo sempre più sfuggente |3|.
Quando non condanna direttamente le donne alla disoccupazione, la crisi del debito ne appiattisce considerevolmente il reddito. Infatti, una delle principali variabili per la regolazione del “sistema-debito” è la riduzione di salari e orario di lavoro dei dipendenti del settore pubblico, composto prevalentemente da donne. Questi tagli salariali comportano una tale perdita di reddito per le lavoratrici (e più specificamente quelle della pubblica amministrazione) che per poter sbarcare il lunario esse si trovano spesso a dover accettare almeno un secondo se non un terzo lavoro, questa volta il più delle volte in nero, settore dove regna l’arbitrio e lo sfruttamento a oltranza, o si trovano costrette, come avviene in Inghilterra, ad alternare i loro orari dii lavoro con il coniuge: mentre uno/a lavora di giorno, l’altro/a lavora di notte per evitare di dover destinare una parte del loro reddito alla cura dei figli.
Le più anziane non sono risparmiate da queste politiche, anzi. Dopo aver lavorato tutta la vita, sono sempre di più a ritrovarsi a vivere l’inferno di una vecchiaia indigente. Lì dove esistono le pensioni, il loro montante viene costantemente diminuito mentre l’età pensionabile per le donne viene contemporaneamente innalzata |4|. Quello delle pensionate diventa inesorabilmente uno dei gruppi più esposti al rischio povertà. Nel 2015, non meno del 16% di loro viveva sotto la soglia di povertà nell’Unione europea |5|. Questa percentuale sale ad almeno il 23% |6| tra quelle che vivono da sole.
Comprimendo costantemente il reddito delle donne, PAS e austerità alimentano un importante indicatore di disuguaglianze strutturali di genere: ovunque nel mondo, il divario salariale aumenta. Secondo le ultime stime della ILO (2016), su scala mondiale le donne guadagnano in media il 77% del salario degli uomini |7|.
Oltre al saccheggio dell’occupazione femminile e alla distruzione dei redditi delle donne, la crisi del debito incoraggia anche la precarietà dell’occupazione femminile. Questa è accentuata dalla forte deregolamentazione del mercato del lavoro e dalla disintegrazione del diritto sindacale. Per le donne, rimettere in forse il diritto del lavoro sfocia in un considerevole rafforzamento del loro sfruttamento. Così, gradualmente, da nord a sud del pianeta il lavoro precario, flessibile e sotto banco delle donne costituisce più la norma che l’eccezione. Ma, in definitiva, non solo sono proprio questi lavori ad essere eliminati per primi in caso di licenziamento, ma per di più non permettono ai lavoratori, del tutto o solo in parte, l’accesso alla protezione offerta dal diritto del lavoro e dalla previdenza sociale. Inoltre, il fatto che l’uguaglianza tra i sessi non compare più come una priorità dei governi incoraggia i datori di lavoro a ricorrere impunemente a pratiche illegali quali il licenziamento delle donne in gravidanza o dopo il congedo di maternità. Così, in tutto il pianeta, in nome del rimborso del debito pubblico le donne lavorano di più per guadagnare di meno in condizioni di lavoro altamente degradate.
Ovunque si verifichi, la crisi del debito è infatti sinonimo di precarietà finanziaria, fisica e psicologica del lavoro femminile, di aumento della povertà e di perdita di autonomia finanziaria, elemento fondamentale per qualsiasi reale emancipazione delle donne. Inoltre, le politiche di austerità, penalizzando il diritto al lavoro retribuito delle donne e costringendole a rimanere confinate nella sfera privata per assumervi il loro ruolo cosiddetto ‘tradizionale’ di madre e/o sposa casalinga, sono potenti motori di riattivazione di un’ideologia patriarcale, conservatrice e sessista.
Le donne al centro della distruzione della protezione sociale
In nome del risparmio necessario per gestire la “crisi del debito”, i bilanci di protezione sociale, nei paesi che li attuano, conoscono restrizioni draconiane: riduzioni di indennità di disoccupazione, dei sussidi sociali, degli aiuti alle famiglie, delle indennità di maternità, delle prestazioni per i non-autosufficienti, ecc. Questi tagli colpiscono soprattutto le donne nella misura in cui, poiché ancora assumono il ruolo di principale responsabile della famiglia e spesso sono finanziariamente precarie, sono più dipendenti dalle prestazioni sociali rispetto agli uomini.
Politiche per la famiglia e programmi di promozione della parità di genere sono i bersagli preferiti delle politiche di austerità. I servizi di assistenza per bambini e persone da loro assistite stanno diventando sempre meno abbordabili, meno adeguati e accessibili, mentre la loro qualità si deteriora. Di conseguenza, molte donne si vedono costrette a ridurre il proprio orario di lavoro retribuito o persino abbandonare del tutto il mercato del lavoro per poter sostenere il loro ruolo riproduttivo. Le associazioni di promozione femminile sono a loro volta nell’occhio del ciclone delle restrizioni di bilancio. Le sovvenzioni a loro destinate continuano a decrescere quando non vengono semplicemente eliminate.
Si può constatare fino a che punto il “sistema-debito” metta a rischio le conquiste delle lotte femministe, rinforza gli stereotipi esistenti dell’uomo come colui che ‘guadagna il pane per la famiglia’ e della donna ‘del focolare’ e come si proponga di far pagare il prezzo della crisi principalmente alle donne.
Dallo Stato sociale alla “Madre sociale”
L’austerità è un attacco a tutto campo ai servizi pubblici: servizi sociali, sanità, educazione, energia, trasporti, infrastrutture, nulla le sfugge! Tutti i servizi vengono ridotti, eliminati, privatizzati o, in alternativa, ne viene aumentato il canoni di utilizzo. Questa demolizione dello Stato sociale colpisce in primo luogo le donne, e sotto tre aspetti. Rappresentando la maggioranza dei lavoratori nell’amministrazione pubblica, sono le principali vittime dei licenziamenti imposti. Le donne sono anche i primi utenti dei servizi pubblici. La loro partecipazione al mercato del lavoro dipende dalla disponibilità di servizi all’infanzia, fanno maggior ricorso all’assistenza sanitaria per se stesse (cure ginecologiche, gravidanza, maternità, ma anche cure legate a una maggiore aspettativa di vita,…) o per i loro cari, utilizzano maggiormente i mezzi di trasporto pubblico, e così via. Infine, sono quelle che devono, attraverso un aumento del loro lavoro invisibile e non retribuito, assicurare quei compiti di cura ed educazione abbandonati dal servizio pubblico. Si assiste così ad una vera sostituzione dei ruoli e delle responsabilità essenziali dello stato da parte del privato e di conseguenza da parte delle donne, il che impedisce loro di partecipare pienamente a tutte le sfere della vita. In nome del debito pubblico, si assite ad una traduzione: dal concetto di “Stato sociale” si passa a quello di “Madre sociale”. E questo gratuitamente, per ridurre la spesa, ripagare i banchieri e rimborsare il debito: non è magnifica la crisi?
Anche i danni provocati in tutto il mondo ai diritti sessuali e riproduttivi delle donne derivano in gran parte dalle politiche del debito. Mentre da una parte permettono alle donne di esercitare un controllo sul proprio corpo e quindi sulla loro vita, austerità e PAS dall’altra tagliano i finanziamenti alle strutture che dovrebbero garantire tale diritto. Ovunque, vengono concessi finanziamenti sempre minori alla prevenzione dell’HIV, all’IVG, ai servizi di pianificazione familiare, al servizio sanitario pre e postnatale e a quello di prevenzione per la salute delle donne. I reparti di maternità e ginecologia sono solitamente i primi servizi ospedalieri ad essere soppressi in nome dei risparmi da fare per rimborsare il debito. Si noti inoltre che, nei paesi dove è state conquistata a seguito di grandi lotte, l’autodeterminazione riproduttiva delle donne è costantemente sotto attacco |8|. Così, intaccando (ove esistenti) i diritti sessuali e riproduttivi delle donne, il debito distrugge non solo la libertà delle donne di scegliere che tipo di vita vogliono condurre e quando, ma contemporaneamente rafforza quelle correnti di pensiero reazionario per le quali le donne sono prima di tutto madri e, preferibilmente, madri casalinghe.
Le politiche del debito portano ad un indebolimento generalizzato delle donne. Minate dall’impatto psicologico della crescente povertà, da una salute in costante degrado sotto il peso di troppo lavoro e dallo stress indotto dall’obbligo di doversi assumere più ruoli, le donne delle classi inferiori non hanno nemmeno il tempo di respirare, di prendersi cura della propria persona o di partecipare agli affari pubblici. Tuttavia, mentre sopportano le peggiori conseguenze del debito, le donne sono i veri creditori a livello nazionale e internazionale. Sono le titolari di un enorme debito sociale. Senza il loro lavoro gratuito di produzione, riproduzione e assistenza alle persone, le nostre società sarebbero semplicemente al collasso totale! Di conseguenza, non è affatto un eufemismo dichiarare che l’illegittimità del debito è ancora più macroscopica se si è una donna. Debito e emancipazione femminile sono in perfetta antinomia. Qualunque processo di reale emancipazione implica la lotta contro questo sistema-debito che, di concerto con il patriarcato, schiavizza le donne e impedisce loro di godere dei loro diritti più fondamentali. Ecco perché, in tutto il mondo, i movimenti femministi rifiutano questa logica nefasta e, lavorando a rafforzare le loro convergenze, scendono in campo nella lotta contro il debito illegittimo, contro le istituzioni finanziarie internazionali e, più in generale, contro il sistema neoliberista.
Note
|1| In Grecia, nel 2016, il 55,9% delle donne sotto i 25 anni è disoccupata, mentre in Spagna condivide questa realtà il 47% delle giovani donne. Eurostat, disoccupazione per età e sesso.
|2| In seguito a queste misure una nuova frazione di lavoratrici è entrata nel salariato del settore industriale o agricolo in condizioni di lavoro detestabili e con salari da fame. Molte di loro non hanno avuto altra scelta, per sopravvivere, che raggiungere le fabbriche nelle aree franche (maquiladoras) dove le leggi sul lavoro sono sospese o inesistenti e regna lo sfruttamento a oltranza, il tutto in uno contesto di esasperata violenza contro le donne.
|3| Per ulteriori informazioni sull’impatto di questi adeguamenti strutturali sul reddito delle donne nei paesi del Sud: Christine Vanden Daelen, “.La dette, les PAS: analyse des impacts sur la vie des femmes“.
|4| In Austria, dal 2014, le donne devono aspettare i 60 anni anziché i 57 del sistema precedente per smettere di lavorare. Allo stesso modo, in Italia, dal 2012, le donne devono continuare a sgobbare fino ai 66 anni prima di poter prendere la loro pensione. Vedere: “Cosaprevede la RiformaFornero“.
|5| Eurostat, Taux de risque de pauvreté par seuil de pauvret, âge et sexe, ricerca EU-SILC.
|6| United Nations, “The world’swomen 2015, Trends and statistics“.
|7| OIT (2016), “Les Femmes au Travail, Tendances 2016“.
|8| In Spagna, nel 2014, se n’è rischiata l’abolizione. Senza le massicce manifestazioni di piazza e la solidarietà internazionale, le donne di questo paese non avrebbero più diritto all’IVG. Donald Trump ha firmato, a gennaio 2017, un decreto che vieta il finanziamento delle ONG americane che sostengono l’aborto.
Traduzione dal francese di Giuseppina Vecchia per Pressenza