In Turchia, dopo il tentativo del colpo di stato del 15 luglio 2015 le università attraversano un periodo molto difficile. Pochi giorni dopo il tentativo di golpe, il 20 luglio, è stato dichiarato per la prima volta lo stato d’emergenza, che ha avuto una durata di tre mesi ed è stato poi rinnovato per tre volte consecutivamente. Il paese vive quindi ancora oggi in questa condizione straordinaria. La presenza di numerosi controlli, l’impossibilità di svolgere manifestazioni di protesta, l’annullamento di numerose manifestazioni culturali sono soltanto alcune conseguenze dello stato d’emergenza.
Attraverso i decreti legge il Presidente della Repubblica, il Primo Ministro e il Consiglio dei Ministri hanno trasformato il paese su più fronti adducendo “motivi di sicurezza”. Cambiamenti radicali nella gestione degli enti pubblici, interventi straordinari nella gestione dei fondi pensionistici, apertura di nuovi cantieri edili per i privati, oppure per le grandi opere pubbliche in terreni prima appartenenti alle forze armate ed espulsione di numerosi impiegati statali presso vari ministeri. Tra queste persone allontanate dal posto di lavoro e finite sotto indagine ci sono 4.811 accademici universitari.
Dal 20 luglio fino a oggi sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale cinque decreti legge che riguardano i lavoratori dell’informazione e sono state chiuse 15 università su 191. Secondo i dati diffusi dalla Rete dei Giornalisti Indipendenti (BiaNet) queste strutture davano lavoro a 2.805 persone ed erano frequentate da 64.533 studenti.
Oltre alle università chiuse definitivamente, perché accusate di appartenere alla rete della comunità di Gulen – accusata a sua volta di aver progettato e messo in atto il tentativo di colpo di stato del 15 luglio – in diverse atenei sono stati licenziati e indagati 4.811 accademici. Osservando i nomi si nota che molti compaiono tra i firmatari dell’appello per la pace lanciato nel gennaio del 2016 da 1.128 accademici appartenenti a 89 università in Turchia e all’estero, con la richiesta allo Stato di porre fine al massacro e alla politica di espulsione contro la popolazione delle regioni del sud est della Turchia e di punirne i responsabili. Il conflitto tra le forze armate turche e la guerriglia del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) è ricominciato nel luglio del 2015 dopo due anni di tregua. I firmatari dell’appello hanno subito numerosi attacchi politici e mediatici da parte del Presidente della Repubblica, del Primo Ministro, di numerosi esponenti del governo e di vari giornali e canali televisivi allineati con le politiche del governo. Nel giro di poche settimane alcuni accademici sono stati sospesi e denunciati e alcuni hanno passato parecchie settimane in detenzione cautelare.
In base al decreto del 7 febbraio 2017 sono stati sospesi 330 accademici. Tra questi c’è anche la Professoressa Oget Oktem, la prima neuropsicologa del paese, conosciuta anche per aver aperto il primo studio di neuropsicologia in Turchia. Tra gli accademici espulsi c’è anche la Professoressa Nur Betul Celik, che insegnava presso la Facoltà di Comunicazione dell’Università di Ankara. Secondo Celik queste espulsioni non prendono di mira soltanto i firmatari dell’appello, ma anche la cultura accademica e la ricerca scientifica del paese. “Non siamo soltanto noi le vittime di questa situazione, ma anche le future generazioni”, ha dichiarato Celik nell’intervista rilasciata al portale di notizie T24. Nella Facoltà di Lingue, Geografia e Storia dell’Università di Ankara presso il corso di laurea in Teatro a causa delle numerose espulsioni sono rimasti solo tre insegnanti di recitazione e un professore per il corso di scrittura creativa. Nella Facoltà di Scienze Politiche della stessa università con l’ultimo decreto sono stati espulsi 23 accademici. Secondo il Professor Ayhan Yalcinkaya grazie a questa situazione per il momento 50 laureandi sono rimasti senza tutor e circa 40 corsi sono stati interrotti per mancanza di insegnanti.
E’ stata l’Università di Suleyman Demirel della città di Isparta a subire la maggior parte dei danni sin dall’inizio dei primi decreti, perdendo 193 accademici, seguita dall’Università di Istanbul con 192 espulsi, dall’Università di Gazi ad Ankara con 169 professori e dall’Università di Pamukkale a Denizli con 164 accademici sospesi/espulsi.
Secondo un’intervista realizzata dalla BBC Turchia con Sener Aslan, responsabile relazioni con la stampa del Consiglio per l’educazione superiore (YOK), non è quest’ente a decidere i nomi degli accademici espulsi. Secondo Aslan in questo periodo sono stati istituiti dei consigli indipendenti presso ogni università; sono stati i membri di questi consigli a decidere i nomi e i provvedimenti da prendere. Aslan ha precisato che gli accademici espulsi potranno appellarsi alle decisioni rivolgendosi a queste commissioni.
In un intervento televisivo presso TELE1, Erdogan Boz, professore presso la Facoltà di Lingue Straniere dell’Università di Ankara, espulso anche lui con l’ultimo decreto, ha dichiarato: “Coloro che ci spingono verso la povertà e la fame pensano che rinunceremo a ciò che abbiamo detto, ma si sbagliano. Tutto questo prima o poi avrà delle ripercussioni e dei riscontri. Questa situazione non è sostenibile sia per il paese che per il governo. Se si continua così questo paese diventerà invivibile anche per chi mette in atto questa persecuzione”.
Uno degli espulsi in base all’ultimo decreto legge è Ibrahim Kaboglu, Presidente del Corso di Laurea in Giurisprudenza dell’Università di Marmara, che nel 2002 era stato nominato dallo stesso governo come Presidente del Consiglio per i Diritti Umani del Primo Ministro (attuale Presidente della Repubblica). In un’intervista rilasciata all’agenzia di notizie DHA, Kaboglu ha affermato: “In questi mesi sono stati messi in atto diversi provvedimenti che non c’entrano con il tentativo di colpo di stato. Uno di questi è la distruzione delle università. Non è accettabile che vengano prese delle decisioni contro la Costituzione e contro una serie di convenzioni internazionali, di cui la Turchia risulta la firmataria e si coinvolgano scienziati che non fanno altro che portare avanti le loro ricerca. Si tratta di un errore molto grave, che potrebbe portare il paese a errori ancora più gravi”.