Sono circa 800.000 mila i Rohingya che vivono in Myanmar e in particolare nello stato del Rakhine, da dove nel 2012 è partita un’ondata di violenze che ha fatto centinaia di vittime tra questa minoranza musulmana, che la maggioranza buddista detesta e che il governo mal sopporta e considera alla stregua di immigrati clandestini del Bangladesh, anche se molte famiglie hanno vissuto per generazioni in Myanmar e potrebbero rientrare a pieno titolo tra le minoranze etniche del Paese.
Come se non bastasse una vera e propria rappresaglia militare è stata lanciata il 9 ottobre del 2016 contro i Rohingya, ritenuti responsabili di un attacco armato a tre posti di blocco militari. Il risultato? Circa 65mila di loro sono stati costretti a fuggire in Bangladesh e altri 120.000 sono confinati in 67 campi profughi dove subiscono le violenze anche dei soldati birmani, come ha testimoniato un video apparso nel gennaio di quest’anno che ha provocato le immediate proteste di tutto il mondo islamico. Dallo scoppio delle violenze nel giugno 2012 i rappresentanti dei 57 paesi membri dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC) hanno ripetutamente segnalato, all’Assemblea dell’ONU e alle sue istituzioni, la drammatica situazione della minoranza e lo hanno ribadito lo scorso 19 gennaio a Kuala Lumpur in Malesia durante un vertice speciale sulla questione dei Rohingya a cui continua ad essere negata la cittadinanza birmana in Myanmar.
Per questo alla vigilia del vertice, con una lettera indirizzata ai Ministri degli esteri dei paesi islamici, l’Associazione per i Popoli Minacciati (APM) ha chiesto che l’OIC si impegni concretamente per una soluzione politica della tragedia dei profughi Rohingya nel sudest asiatico. Secondo l’APM, infatti, non solo è urgente aumentare la pressione sul governo birmano affinché lavori a una soluzione pacifica della questione dei Rohingya nel paese, ma “è necessario anche appellarsi al governo del Bangladesh, paese membro dell’OIC, affinché accolga e tuteli almeno temporaneamente i profughi Rohingya in fuga dal Myanmar (Birmania)”. Di fatto ad oggi, nonostante i rigidi controlli alle frontiere e l’immediato rimpatrio dei richiedenti asilo, i 65.000 Rohingya che sono riusciti a scappare in Bangladesh vivono una situazione drammatica perché, come ha spiegato l’APM, “in Bangladesh vengono considerati come semplici migranti illegali e per questo restano privi di protezione internazionale”. Un richiamo che in settimana ha fatto proprio anche il Papa ricordando i Rohingya “cacciati via dal Myanmar, che vanno da una parte all’altra perché nessuno li vuole. È gente buona, pacifica: sono buoni, sono fratelli e sorelle! È da anni che soffrono: sono stati torturati, uccisi, semplicemente per portare avanti la loro tradizione, la loro fede musulmana”.
Sui profughi, però, tutto il modo è paese e non solo il Myanmar e il Bangladesh sembrano voltare le spalle a questi potenziali rifugiati birmani. Anche altri paesi membri dell’OIC, come Malesia, Indonesia, i più vicini geograficamente alla crisi, ma anche Arabia Saudita e Pakistan, i paesi in cui vivono numerose comunità di Rohingya in esilio, temono un ulteriore esodo dalla Birmania nel caso di un’escalation del conflitto. Così nonostante l’OIC sembri al momento più preoccupato per il “problema profughi” che per il “rispetto dei diritti umani”, in Malesia l’Organizzazione ha espresso la sua “grave preoccupazione per la perdita di vite innocenti e lo sfollamento di decine di migliaia di Rohingya a causa della violenza che infuria nel Rakhine”. Per questo il primo ministro malese Najib Razak, durante il discorso conclusivo della riunione di Kuala Lumpur, ha esortato il Myanmar “a porre immediatamente fine alla discriminazione” e ha invitato gli altri paesi islamici “ad agire subito con un fondo di sostegno d’emergenza”.
Un richiamo che il Myanmar ha rispedito al mittente definendo deplorevole la richiesta fatta dall’OIC in Malesia. In una dichiarazione fatta a Channel News Asia, il governo del Myanmar ha rinfacciato al governo malese, membro anch’esso dell’Association of South-East Asian Nations (Asean), “di aver violato le regole dell’organizzazione, che prevedono la non ingerenza negli affari interni” ed ha accusato il presidente Najib di utilizzare la causa Rohingya “come cortina di fumo per coprire gli scandali miliardari che lo vedono implicato”. Per il Governo di Naypyidaw le azioni delle forze di sicurezza sono state eseguite in conformità con la legge, anche se a quanto pare non ha ancora sbloccato l’ingresso degli aiuti umanitari internazionali da cui dipendono circa 120mila persone.
Lo stesso ministro degli esteri birmano, il premio Nobel Aung San Suu Kyi ha recentemente chiesto alla comunità internazionale maggiore pazienza per poter trovare “una soluzione unanime” della questione Rohingya evitando di “polarizzare inutilmente lo scontro nel paese”, magari cominciando con l’utilizzare per questa minoranza il nome ufficiale birmano di “Bengali”, definizione che però sia i Rohingya sia la comunità internazionale hanno sempre rifiutato.
Un atteggiamento, quello di Aung San Suu Kyi, che per l’APM, ricorda tristemente l’atteggiamento verso i Rohingya della giunta militare e del poco democratico governo che è succeduto alla dittatura: “Il rifiuto di riconoscere il nome proprio di un intero popolo non costituisce una base propizia per il riconoscimento dei loro pari diritti senza i quali i Rohingya non possono sperare in un futuro di libertà e dignità”. Per ora in tutto il Myanmar, nonostante l’intervento dell’OIC e la pressione della comunità internazionale, la libertà dei Rohingya è ancora fortemente limitata e i loro diritti umani individuali, come il diritto a sposarsi o a cercare lavoro, non sembrano preoccupare neanche Aung San Suu Kyi.
Come se non bastasse in questi giorni il clima politico è tornato incandescente per l’assassinio dell’avvocato birmano di primo piano Ko Ni. Consulente della Lega nazionale per la democrazia (Nld), il partito di Aung San Suu Kyi oggi al potere, Ni era di religione musulmana e aveva promosso diverse campagne a favore dei musulmani Rohingya perseguitati. Non è ancora certa la matrice del delitto, ma è sicuro che queste sue attività gli avevano recentemente procurato diverse inimicizie sia dal punto di vista politico che confessionale. Premesse che non fanno sperare in una immediata e pacifica soluzione di questo conflitto religioso.
Alessandro Graziadei