Quando si andrà al voto? Entro giugno, in autunno o nel 2018? Nelle ultime settimane sembra questa la priorità dell’agenda politica italiana. Talvolta anche problemi rilevanti per il Paese come la disoccupazione o il terremoto sono finiti in secondo piano nel confronto tra le forze politiche.
Tutto sembra girare intorno ad un perno fisso: la data delle prossime elezioni politiche. Da questa dipendono persino la legge elettorale e la sorte del Governo in carica. Si è arrivati addirittura al punto che la prossima scadenza elettorale costituisca motivo di divisione anche all’interno del partito di maggioranza relativa, nel quale alcuni leader indicano a piacimento la data utile.
Inoltre, ci sono altri partiti o movimenti che da tempo chiedono insistentemente le elezioni anticipate come conseguenza del voto del dicembre scorso sul referendum costituzionale, senza spiegare il nesso tra questi eventi. Queste indicazioni e richieste fanno ormai parte del dibattito politico quotidiano, ma ciò nondimeno si tratta di evidenti errori di metodo.
Infatti è il Presidente della Repubblica che “indice le elezioni delle nuove Camere” (art. 87 Costituzione) e che lo stesso Presidente “può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse” (art. 88). Pertanto, il fatto che alcuni partiti tendano a fissare la chiusura anticipata del Parlamento è in sé un’anomalia costituzionale.
Per evitare prevaricazioni, occorre mantenere la distinzione tra dialettica politica e assetto istituzionale. Le prerogative del Presidente della Repubblica non possono e non devono essere messe tra parentesi, né dalla maggioranza né dalle opposizioni parlamentari. Tanto meno può farlo un partito o una corrente di partito.
La democrazia costituzionale è un’architettura complessa, che serve a mantenere in equilibrio un sistema politico. Anche per questa ragione l’art. 1 stabilisce che “la sovranità appartiene al popolo”, ma “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Ciò significa ad esempio che non si vota quando qualcuno si arroga la rappresentanza del popolo (persino quando questa fosse maggioritaria), ma secondo le regole stabilite e che tutti dovrebbero condividere.
Il popolo non è una massa informe di individui che si possono rappresentare a proprio uso e consumo. In lingua inglese il popolo (the people) è un sostantivo plurale, che meglio rende l’idea di una comunità composita, che può stare insieme soltanto se tutti accettano a priori di rispettare le norme comuni.
Anche per questa ragione le revisioni costituzionali dovrebbero essere sempre ben ponderate ed ampiamente condivise. Non è forse casuale che, dopo la frattura del referendum costituzionale, ci si divida anche sulla materia elettorale, sia per la legge da approvare che per la tempistica per arrivare ad un nuovo voto.
Quando Sergio Mattarella due anni fa è stato eletto Presidente della Repubblica ha tenuto un discorso che è utile richiamare: “Nel linguaggio corrente si è soliti tradurre il compito del capo dello Stato nel ruolo di un arbitro, del garante della Costituzione. È un’immagine efficace. All’arbitro compete la puntuale applicazione delle regole. L’arbitro deve essere – e sarà – imparziale. I giocatori lo aiutino con la loro correttezza”.
Purtroppo nell’attuale scenario politico ci sono troppi giocatori sleali, molto più interessati a giocare la propria partita anche al di là dei limiti fissati, anziché contribuire ad una corretta dialettica politica per la costruzione responsabile della “polis”. Forse soltanto una più attiva partecipazione delle cittadine e dei cittadini potrebbe riaprire l’orizzonte di una politica, in cui purtroppo il popolo rischia di diventare soltanto uno spettatore passivo, chiamato sulla scena esclusivamente per inserire una scheda dentro l’urna elettorale.