Un portone sbarrato da una grata, immerso nella penombra di un crepuscolo piovigginoso, illuminato ancora dall’impianto elettrico riparato con fatica da chi in questo luogo ha vissuto e sperato per 42 giorni.
Una via e un quartiere tornati nel silenzioso anonimato della periferia, i cui abitanti sottovoce discutono dello sgombero dei “clandestini” tra la tristezza di quelli che, prima isolati, poi sempre più numerosi, avevano vinto l’iniziale diffidenza e avevano deciso di ascoltare le ragioni di quegli occupanti così lontani dal cliché del pericoloso straniero che porta disordine, terrore e malattie.
Un edificio “finalmente” strappato a chi aveva cercato di cambiarne il destino, e restituito al suo lento, inesorabile degrado.
Questo è ciò che rimane stasera dello stabile occupato di via Fortezza 27, a Milano, sgomberato nella prima mattinata di oggi: uno sgombero arrivato senza alcun preavviso e senza alcuna proposta alternativa per gli abitanti, nemmeno per la giovane madre che lì aveva partorito, e per il suo bambino di appena 9 giorni: una pura e semplice operazione di polizia, che come molte altre volte ha preteso di rispondere con gli strumenti del cosiddetto “ordine pubblico” a un problema sociale, il fallimento delle politiche graziosamente denominate “di accoglienza”.
In una città che trabocca di appartamenti vuoti e di edifici abbandonati, il popolo sempre più numeroso dei migranti di recente arrivo si salda a quello di quanti, senza distinzione di nazionalità, di lingua o di permanenza sul territorio nazionale, non trovano spazio in questo sistema a tasso crescente di esclusione, dai “nostri” poveri, ai rom, da chi perde con il lavoro anche il permesso di soggiorno e i diritti civili, a chi quei diritti non li ha mai conosciuti.
Il Naga lo sa e queste persone le conosce bene, perché da trent’anni le incontriamo e passiamo con loro le nostre giornate, serate, nottate, tentando di restituire loro almeno in parte, coi mezzi che abbiamo, diritti, dignità e speranza.
Il Naga lo sa, e da trent’anni non si stanca di ripetere che la disuguaglianza non si cura con la repressione, né l’insicurezza e il degrado con gli sgomberi: servono invece inclusione e politiche lungimiranti, serve uguaglianza.
Rifiutiamo le distinzioni ipocrite e pericolose tra migranti economici e profughi, tra regolari e irregolari, classificazioni basate su variabili amministrative incapaci di contenere i corpi e le vite delle persone e che producono non legalità, ma caos e disperazione; se questa è la “legalità”, noi rivendichiamo la nostra azione quotidiana di affermazione di un modo più giusto e più umano di vivere insieme.