La giustizia marocchina riprende la causa contro 24 sahariani arrestati nell’accampamento di Gdeim Izik nel 2010 accusati di aver ucciso undici poliziotti.
I prigionieri denunciano le torture: “Cinque di loro sono stati violentati con delle bottiglie di vetro”, dice Hassanna Aalia, uno degli accusati e rifugiato in Spagna.
Il Marocco riprende la causa contro 24 sahariani arrestati dopo i fatti di Gdeim Izik nel 2010. Il Governo li accusa di aver ucciso undici agenti marocchini. Incarcerati a partire da allora, gli attivisti furono condannati da una sentenza militare -revocata- ad una pena che va dai 20 anni all’ergastolo. La giurisdizione civile riprende il caso, discusso da numerose organizzazioni per i diritti umani. È il processo “fattore scatenante della primavera araba”.
La Corte d’Appello di Salé, in prossimità di Rabat, giudica le imputazioni per “formazione di organizzazione criminale, violenza contro la forza pubblica con esito mortale e mutilazione di cadaveri”. Il Governo della Repubblica Araba Democratica dei Saharawi, a sua volta, reclama la “libertà immediata e incondizionata” dei prigionieri; inoltre, denuncia ripetute violazioni dei diritti umani nelle carceri locali e nei territori occupati.
Nella sua prima udienza, il 26 dicembre 2016, il maxiprocesso fu rinviato fino alla riapertura il 23 gennaio 2017. Allora il giudice ha concesso un’arringa difensiva e ha valutato l’assenza di uno degli accusati, Mohamed el Avubi, sotto cauzione di buona condotta. Una giornata marcata da “momenti di tensione” e dalla presenza dei “familiari delle vittime, simpatizzanti dell’indipendentismo del Sahara, osservatori internazionali e giornalisti”, informava Efe (agenzia di stampa spagnola).
– Cosa succederebbe se ritornassi?
– “Se ritorno in Marocco mi aspetta una condanna a vita”.
Questa è la risposta di Hassanna Aalia, condannato all’ergastolo. Qualche settimana fa Hassanna Aalia ha avuto la ratifica della sua condizione di rifugiato in Spagna. “Prima di andare in prigione”, afferma, ti aspetta “ogni tipo di sofferenza e tortura”. Così come ai suoi compagni, assicura: “Cinque di loro sono stati violentati sessualmente con delle bottiglie di vetro”. Racconta ripetuti episodi di maltrattamento fisico e psicologico. “Non possono sopportarlo”, conclude.
Aalia è stato uno dei 25 sahariani condannati dal Tribunale militare di Rabat il 16 febbraio 2013. Da allora, tre dei prigionieri sono in libertà vigilata e diverse organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International e Human Rights Watch hanno respinto quei verdetti “senza nessun tipo di prove”.
Come ha riconosciuto il Tribunale supremo alawide, che ha annullato le sentenze. La visita nel marzo dello scorso anno ai campi di rifugiati saharawi da parte dell’allora segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, coincise con uno sciopero della fame dei prigionieri ed aprì proprio in quell’occasione una crisi tra il Marocco e le Nazioni Unite.
L’aula ordinò che la causa si ripetesse in una giurisdizione civile. Il caso cerca di fare chiarezza sull’implicazione degli attivisti nelle sommosse che hanno avuto luogo nell’accampamento installato a pochi kilometri da El Aaiún, capitale del Sahara Occidentale occupato dal Marocco. Analisti come Noam Chosky considerano la protesta di Gdeim Izik una delle manifestazioni iniziali della cosiddetta primavera araba.
Dall’”Accampamento della dignità” al carcere
Migliaia di manifestanti hanno chiesto “la fine dell’occupazione e il diritto inalienabile alla libera determinazione e all’indipendenza”, diceva la Repubblica Araba Democratica Saharawi in un comunicato. Nel corso dello smantellamento della protesta (novembre 2010) ci furono tredici morti: undici poliziotti e due saharawi. Fu il momento più critico vissuto nella zona dal “cessate il fuoco” proclamato tra il Marocco e il Fronte Polisario nel 1991. Terre che vivono marcate da un conflitto bellico latente.
La causa in questione è un “processo politico”, secondo uno degli avvocati degli attivisti, Mohamed Fadel Leili, che aggiunge: “l’annullazione della sentenza del tribunale militare riafferma che le imputazioni non sono state giustificate per omicidio e complicità”. Le prove “sono false”, sottolinea un altro avvocato, Bazaid Lehmad. Dalla difesa viene assicurato che il nuovo processo può presupporre “pene di un minimo di 15 anni” agli incarcerati che dichiarano “maltrattamenti e violazioni di ogni tipo da parte delle autorità”. È “l’unica cosa certa”, secondo le parole di Fadel Leili, “la maggior parte degli arrestati dicono di essere stati torturati”.
L’obiettivo dell’ “Accampamento della dignità” era “rivendicare i nostri diritti sociali, civili e politici”, difende Hassanna Aalia. Il gruppo di Gdeim Izik passò dalla protesta al carcere.
L’attivista afferma che la repressione nell’accampamento venne realizzata sotto il “silenzio complice” dello Stato spagnolo come “potenza amministratrice” del Sahara. Inoltre, fa riferimento alla comunità internazionale che, secondo quanto ricorda, “dovrebbe rispondere di fronte a queste costanti violazioni dei diritti umani che vengono perpetrate nell’ultima colonia africana, in attesa di essere decolonizzata”.
Di Juan Miguel Baquero per Desalambre
Traduzione dallo spagnolo di Giovanni Nanula via piattaforma Trommons