Il 10 gennaio scorso duecento agenti della Gendarmería Nacional hanno lanciato un’offensiva contro un piccolo gruppo di indigeni mapuche nella provincia di Chubut, nella Patagonia argentina. Un’azione sproporzionata nel dispiegamento di forze in cui, con la scusa di abilitare la ferrovia per il passaggio di un treno turistico, la piccola comunità mapuche è stata attaccata ed isolata completamente, impedendo così il sostegno da parte di organizzazioni e movimenti sociali che operano a sostegno del popolo indigeno. Sono stati sparati proiettili di gomma, impiegati droni ed un uso brutale della forza contro una comunità di molto inferiore nei numeri rispetto alle forze dell’ordine. Il giorno seguente la polizia di Chubut è tornata a colpire, questa volta impiegando non solo proiettili di gomma ma anche proiettili regolari, lasciando sul terreno almeno due feriti gravi e ha proceduto all’arresto di sette persone della comunità. Anche Amnesty International ha denunciato l’accaduto, sottolineando come non sia ammissibile l’azione repressiva da parte dello Stato, soprattutto per quanto riguarda le violenze contro donne, bambini e bambine. Mariela Belski, direttrice di Amnesty Argentina, ha evidenziato l’opacità e la mancanza di trasparenza dell’operazione di polizia e la totale sproporzione fra la realtà dei fatti e la reazione delle forze dell’ordine. Già l’anno scorso Amnesty ed altre organizzazioni per i diritti umani ed organizzazioni indigene avevano denunciato la preoccupante escalation di stigmatizzazione e persecuzione nei confronti del popolo mapuche.
Ma cosa spiega lo scatenarsi di una tale violenza da parte dello Stato argentino contro un piccolo gruppo di indigeni inermi? Forse la statura (economica, non certo morale) del contendente. L’intervento è stato infatti eseguito in seguito alla richiesta della Compañía de Tierras Sud Argentino, che appartiene a Luciano e Carlo Benetton, del Benetton Group, arcinota multinazionale italiana del tessile. La Compañía si è rivolta alla giustizia con il pretesto di ripulire le piccole barricate di rami e tronchi di alberi posizionate dagli indigeni che ingombravano i binari del treno patagonico “La Trochita”. L’utilizzo di questo treno è impedito ai mapuche, ed essi reclamano di poter usufruire del servizio, per uscire dall’isolamento in cui si trovano a vivere. Questa parte di territorio apparteneva a Benetton, ma nel marzo 2015 è stato recuperato dalla comunità mapuche, in quanto parte del proprio territorio ancestrale.
Benetton possiede nella Patagonia argentina, attraverso la citata Compañia de Tierras Sud Argentino, oltre 900.000 ettari di terra, un’estensione pari a 45 volte la superficie della capitale federale Buenos Aires. Tale area è utilizzata prevalentemente per l’allevamento intensivo di capi di bestiame, principalmente ovini, destinati alla produzione di lana (circa 500 tonnellate all’anno). Gli interessi di Benetton ricadono però anche sulla coltivazione intensiva di cereali e produzione di carne bovina e ovina, nonché secondo alcune fonti sull’estrazione mineraria, attraverso l’azienda Minera Sud Argentina Sa, dove i Benetton sarebbero azionisti di maggioranza.
Come accennato, le terre su cui la comunità vive nel dipartimento di Cushamen sono terre recuperate dai mapuche in virtù del fatto che si tratta di territori ancestrali, da loro abitati nel corso dei secoli secoli. I mapuche erano infatti presenti ancora prima che quelle terre venissero donate a dieci cittadini inglesi nel 1896 dall’allora presidente argentino. Si trattava di 900.000 ettari di terra donate in violazione delle leggi vigenti all’epoca, che impedivano donazioni così ingenti nonché una tale concentrazione di terreno nelle mani di una sola società o persona. Nel 1994 il presidente Carlos Menem, protagonista delle dissennate politiche economiche che contribuirono pesantemente alla crisi che si abbatté sul paese tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del decennio successivo, vendette a Benetton quelle terre ad un prezzo irrisorio e gli abitanti mapuche vennero relegati in zone marginali e improduttive, o costretti alla migrazione verso i centri urbani.
La riforma costituzionale del 1994 prevede il riconoscimento del diritto alla proprietà e al possesso delle terre tradizionalmente occupate dalle popolazioni indigene, la personalità giuridica delle comunità che si riconoscono come tali e la partecipazione delle stesse alla gestione delle risorse naturali. L’Argentina ha anche ratificato la Convenzione n. 169 dell’ILO sui diritti dei popoli indigeni e tribali, che all’art. 14 recita: “I diritti di proprietà e di possesso sulle terre che questi popoli abitano tradizionalmente devono essere loro riconosciuti”, nonché, al secondo comma: “I Governi devono adottare misure adeguate per l’identificazione delle terre tradizionalmente occupate dai popoli interessati, e per garantire l’effettiva tutela dei loro diritti di proprietà e di possesso.”
Nonostante questa convenzione sia legalmente vincolante, molto scarse sono le misure politiche intraprese dal governo argentino per garantire l’effettività di queste enunciazioni di principio, che restano pertanto largamente inapplicate, come testimoniato anche da questa specifica vicenda, che non è certo isolata. I diritti dei popoli indigeni riportati nella costituzione e nella convenzione ILO non fanno altro che prendere atto del particolare legame che queste comunità hanno con le loro terre ancestrali e con le risorse naturali, dettate da una specifica cosmovisione che vede la reciprocità come principio fondante nelle relazioni tra natura ed essere umano. I popoli indigeni sono considerati veri e propri custodi delle foreste, delle risorse naturali, del territorio in generale. I metodi tradizionali indigeni di coltivazione e utilizzo delle risorse non sono basati sull’estrattivismo, ossia l’indiscriminato e massivo utilizzo di risorse naturali, ma su di un uso razionale e rinnovabile, sulla rotazione delle colture, sul rispetto globale del territorio che assume valenza anche spirituale nella forma di un attaccamento specifico e sacro alla terra, considerata come madre, come colei che dona la vita agli esseri umani. La difesa dei diritti di questi popoli ha dunque un impatto che va molto al di fuori e molto più lontano rispetto alle loro singole comunità.
In Patagonia, tanto quella argentina quanto quella cilena, i conflitti per la terra si sono inaspriti negli ultimi decenni, parallelamente ad una forte presa di coscienza e rivendicazione da parte del popolo mapuche. L’aumento del conflitto è dovuto principalmente agli interessi economici a causa delle risorse presenti nei territori ancestrali, sia in termini di possibilità turistiche, che immobiliari, che di coltivazione e allevamento intensivo, sia per l’ingresso delle compagnie petrolifere e minerarie decise a sfruttare i giacimenti di materie prima presenti in quelle aree e a fare dell’estrattivismo il loro credo assoluto, in barba alle vite di donne, uomini e bambini che da secoli abitano quei territori.