Continuano gli articoli sulla Tupac Amaru e in difesa della liberazione della sua leader Milagro Sala e degli altri attivisti.
Oggi giornata intensa di riprese per “Welcome to the Cantri” secondo documentario sulla Tupac di Federico Palumbo e Magali Buj.
In mattinata le interviste a due responsabili dell’organizzazione delle madri e delle famiglie dei detenuti “desaparecidos; poi con Paula Alvarez Carreras, del collegio di difensori di Milagro Sala. Inoltre giro di approfondimento all’Alto Comedero, il primo e più grande “barrio” della Tupac, con visita alla scuola e al centro culturale ed alcune riprese suggestive del Tempio delle Cerimonie dei popoli orginari, riproduzione di quello boliviano di Kalasasaya; dalle scalinate ci si affacciava sull’intero quartiere e sullo sfondo di montagne annuvolate si stendeva il campo sportivo e un grande parco acquatico purtroppo abbandonato, e non per colpa della Tupac… ma su questo ci ritorneremo presto.
In questo articolo mi vorreisoffermare non tanto sugli elementi tangibili del dramma Tupac ma su quelli intangibili che ne disegnano la trama.
Nella mattinata abbiamo dovuto fare un giro di commissioni per il centro di San Salvador de Jujuy, e camminando per le strade attraversate da macchine moderne, cinte da buoni marciapiedi, viavai di gente affaccendata per uffici o vagante per negozi di catene di abbigliamento ed elettroniche, una strana sensazione di sollievo mi andava via via inquietando…
Cosa stavo sperimentando? L’esperienza della rassicurante “normalità”, dove la gente “scorreva” sui binari consueti della fretta, dell’evasione e dell’impegno/disimpegno. E dove portano questi binari che sollevano noi tutti dal dover porre attenzione continuamente alla direzione delle nostre vite e al senso dei singoli atti? Approfondisco dentro di me e trovo questa risposta: alla realizzazione di aspirazioni di successo individuale, dove proprio la differenza dagli altri in termini economici, di possesso di oggetti e persone fa la differenza, rispetto agli altri e rispetto all’immagine che uno ha della sua condizione “di partenza”.
Cercando di osservare me, gli altri, e l’ambiente generale, avverto una inesorabilità di atti che portano a conservare e approfondire le differenze; per fare questo chi si trova “nella testa del vagone” fa di tutto affinché chi gli sta “dietro” lo continui a “spingere in avanti”. E come tutto questo? Alimentando la “realtà” in cui i beni, i servizi, le relazioni aumentino di livello per poche persone, quelle più disposte a sacrificare tempo, energie e coerenza interna per raggiungere il livello in cui ci si può rilassare e sentirsi per cinque minuti dei vincitori prima di ricominciare a correre o ad essere “buttato via”.
Più indietro ecco quelli che devono pensare solo a “mantenere la carretta” delle loro vite sui binari e spingere a testa bassa, dove la speranza personale si riversa al massimo sui propri figli. Infine, gli ultimi vagoni servono da “deposito di carne umana” a basso costo e in caso di necessità si staccano un paio di vagoni.
Dipinto il quadro di questa realtà ecco che subito trovo un collegamento con la questione Tupac e risposta a una domanda che mi stavo facendo continuamente da giorni: come è possibile che tante strutture funzionali, di buon livello che la Tupac ha messo in piedi in questi anni (centro culturale, strutture sanitarie, macchinari, scuole, fabbriche, centri per l’alimentazione, per lo sport, consultori, biblioteche, servizi per gli anziani, per le famiglie, per le donne, per i bambini ecc.) siano lasciate in abbandono, allo sfascio, vengano fatte marcire intenzionalmente e con tutti i mezzi possibili dalle istituzioni nazionali e locali attuali? Ragionando cinicamente e accettando la visione elitaria e mercantilista dei governanti, perché non “appropriarsene” a costo di escludere i poveri che l’hanno costruita per farli godere a pagamento ai “vagoni” più avanzati del treno? O perché non utilizzarli come propaganda per ottenere più voti alle prossime elezioni? Ed ecco qui l’anello di congiunzione, o meglio “la pietra dello scandalo” che diventa simbolicamente l’elemento chiarificatore dei miei dubbi amletici: la “pileta”.
Cosa è una pileta? E’ una piscina, sono le innumerevoli piscine che la Tupac ha fatto costruire come “centro”, come elemento simbolo della rinascita tupaquera e dei poveri in ogni quartiere costruito, nella sede, in ogni struttura recuperata dall’abbandono. E simbolo dei simboli ecco il parco acquatico al centro dell’Alto Comedero, ai piedi del Tempio dove si festeggia l’Inti Raimi (la Festa del Sole dei popoli originari). E proprio approfondendo sinceramente su me stesso, ammetto che anche a me la pileta è apparsa come una mostra di superfluo innecessaria, ovvero, ancor più sinceramente, qualcosa che stona esteticamente in un quartiere di indigeni. Ecco dunque la risposta: non è possibile che un gruppo di poveri e discriminati organizzati e solidali costruiscano una piscina, addirittura un parco acquatico per il loro benessere e di tutti quelli che lo vogliono usare liberamente. Non è possibile mostrare che la gente organizzata pensi al benessere di tutti e realizzi beni “di lusso” per tutti. Allora poi come convincere a lavorare 15 ore al giorno, sgomitando per concorrere sugli altri, accettando ricatti sempre più condizionanti e violenti per poter mangiare al tavolo dei vincenti, per poter viaggiare, girare nei centri benessere, spendere per cose inutili e per assicurarsi la compagnia di donne o uomini di prestigio.
Se invece attraverso una semplice organizzazione e il cuore posto nell’altro si possono realizzare cose che sembrano raggiungibili solo a costo di mirabili sacrifici e abilità straordinarie individuali? Come permettere dunque perfino l’esistenza di una pileta gigante e piena di divertimenti in un quartiere alla periferia della periferia della periferia, nell’ultimo scompartimento dell’ultimo vagone dell’ultimo treno? E purtroppo questo se lo chiedono in questi termini anche molti “passeggeri” degli ultimi vagoni. I binari si sfalderebbero di colpo, e ci si troverebbe a dover rispondere sulla direzione delle proprie vite e sul significato reale di ogni singolo atto.
Mi infilo con Federico nel traffico dell’ora di punta, pensando: usciamo tutti dai binari e corriamo a riempire d’acqua le pilete!
Fulvio Faro